Fatacarabina

Fatacarabina

venerdì 27 febbraio 2009

Tu resta fermo

Potrei regalarti una parte di me, e anche lasciarti scegliere. Ti vorrei fermo, immobile, ad osservarmi mentre sono nuda davanti a te , senza più paure e timori. Fiera di mostrarmi ora per come sono. Non certo bella, ma piena di vita. Piena di storie e di pensieri che volano dentro questo cuore che e' un mattone forato dal vento. E potrei allora regalarti i miei occhi curiosi per andar a caccia di volti e di colori con cui realizzare le tue tele. Potrei regalarti le mie orecchie sempre tese ad ascoltare, cosi' che avresti lo zaino pieno di storie da raccontarmi di notte, dopo aver fatto l'amore. Potrei regalarti la mia bocca ma lei ha sempre sete e richiede impegno. Potrei regalarti le mie gambe che sono l'unico mio appiglio alla realta'. Potrei regalarti le mie mani che sanno sempre cosa cercare, anche al buio. Potrei regalarti questo ventre che palpita e che io accarezzo, sfidandoti, per vedere quanto saprai resistere alla vita. Tu puoi anche restare fermo, a muovermi ci penso io.

Pietra

La lascio su queste pietre la ragazza paurosa. Le ho preparato la valigia: ci ho messo dentro i respiri trattenuti per i timori, i sensi di colpa.
Ho aggiunti alcuni libri e cd, cosi' di notte non si sente sola ed una coperta in cui avvolgersi per non sentir freddo, tra queste pietre. Una lampada ad olio per uscire di notte a sentir il vento, che a lei piace tanto. Le ho dato un bacio in fronte e me ne sono andata per la mia strada, senza girarmi per non vederla nel buio, tra le pietre, pianger lacrime inutili e urlare solo che lei vuole.

mercoledì 25 febbraio 2009

A spasso per Macondo

Lo scrivo per cercar di trattenerlo questo sogno ad occhi aperti che sto vivendo. Lo scrivo perche' ancora non ci credo e temo che arrivi presto un pugno in faccia a svegliarmi. Sono a Macondo, dormiro' qui per due notti. Mi aspetto da un momento all'altro di baciar le labbra di Aureliano Buendia e di far quattro chiacchiere in privato con Melquiades. E di passar davanti a casa di Remedios, seguendone il profumo. Ho trovato Macondo, ci sono inciampata a pie' pari e non vorrei più andar via: passeggio per un pueblo dove il tempo si e' fermato al 1800 con le strade di ciottoli, le case imbiancate dalla calce, le finestre di legno lavorato e le porte tutte aperte. La piazza del paese, la più grande, misura centoventi metri per centoventi ed e' perimetrata da grossi lastroni di pietra grezza. Il pavimento sconnesso conduce alla grande chiesa, bianca e imponente, dove il sacerdote attende per apporre la croce sulla fronte con le ceneri, nel primo giorno di Quaresima. Passeggi e la gente ti saluta non come uno straniero ma come un amico tornato da molto lontano. E c'e' silenzio e caldo all'ora della siesta e poi arriva, improvvisa, la pioggia a bagnarmi e io penso che ci sta tutta, che mi fa bene quest'acqua che cade dall'alto in questa Macondo, uscita diritta dalle pagine di Gabo e che mi sta marchiando la pelle. E vorrei esser una vecchia in abiti andini con un mazzo di camomilla, vecchia senza tempo in un paese senza minuti. O una bambina con le trecce che esce correndo al termine della scuola e attraversa la piazza ridendo, rincorrendo i compagni. Vorrei esser come queste pietre, calda o fredda, ma saldamente attaccata alla terra. Vorrei non svegliarmi da questo sogno.

Oro y sangre - en espagnol

Claudia Sangoi mi ha regalato anche la traduzione di "Oro y sangre" che pubblico subito con un brivido di felicita' che mi corre lungo la schiena. Lei sa perfettamente il perche'! E io le voglio bene. Anche per questo.

Oro y sangre. deseo y violencia. Alegría y pobreza. Cuántos contrasentidos alrededor mío. Cuántos dentro de mi en esta noche colombiana. Quisiera quedarme mucho para entender a esta ciudad doble, hecha de oro y sangre. Quisiera quedarme para enternderme, para explorar mi interior para leer mi destino es esta vísceras que bailan cuando un nomebre me pasa por la cabeza que quisiera sólo olvidar y que me tranforman en una chica con ojos de brasas cuando a mis sueños llega ese señor. Entre sus brazos me quedaría largo rato respirando veloz. Me siento doble en una ciudad doble. mitad penitente y un algo puta en una ciudad da sangre y oro.

Cartagena - en espagnol

Hombres con camisa blanca a lo largo de la pared, allí están todos juntos para ver el ocaso. Es un ritual cotidiano esperar que el sol se zambulla en el mar. Para la oscuridad todavía hay tiempo, este es el momento de gozar por los ojos, mientras el viento infla la camisa y alborota el pelo. Entre cervezas y risas esperan ese beso que tiñe el cielo de azul y naranja. Lejos una estrella verde guiña un ojo, socarrona. Para la oscuridad si, hay tiempo todavía. 

tradotto da Claudia Sangoi
a cui va il mio grazie

lunedì 23 febbraio 2009

Mattoni forati

In questa stanza buia, attraverso i mattoni forati che fan da rudimentale aria condizionata, il vento entra vigoroso e sibilando, cupo, mi canta una strana ninna nanna. E mi dice che ho un merito, quello di esser libera, e un difetto, di voler troppo bene. E gli devo dar ragione, come sempre:adesso ho il cuore come i mattoni forati, e non so che musica possa produrre il vento passandoci in mezzo.

Carnevale

Le calli di Santa Marta sono chiuse, per quattro giorni a comandare e' la gente che qui abita e anche la polizia si adegua invitando i taxi a deviare percorso. Il Carnevale scombina i piani di ognuno in un gioco anarchico. Nelle calli di S.Marta si aprono le porte delle case, si tolgono le sbarre e si portano in strada sedie e casse di birra, la radio accesa 24 ore su 24, con la salsa sparata a tutto volume. E si parla e si balla, si beve e si balla, ci si intontisce di aguardiente, si sfiorano ventri e fianchi, si occhieggia su un petto nudo e sudato. Marta all'angolo dell'incrocio allatta suo figlio, tenendolo con un braccio, stretto al suo seno. Con l'altra mano passa tra le auto ferme al semaforo per chiedere qualche pesos. E da un bus turistico spunta una banconota da 20 mila pesos, che le cade davanti sull'asfalto. Lei, pronta, la raccoglie tenendo sempre il figlio attaccato al seno. Per oggi ha finito, si puo' mangiare.
E' domenica di Carnevale anche a Taganga, dove inizia la sierra Nevada e dove si nascondono i guerriglieri. Anche qui si attende la sera per alzar la musica a tutto volume, dopo una giornata di gran lavoro per i pescatori. La mattina trasportano con le loro barche i turisti nelle isolette tra le montagne a picco sul mare, gli ultimi lembi di Ande in terra colombiana. Di pomeriggio comincia la battuta di pesca e la raccolta a sera inoltrata viene messa in vendita direttamente sul bagnasciuga che costeggia l'unica strada del paese. Don Juan ha lavorato poco e per i suoi ninos, i ragazzi poveri del paese che lo aiutano ogni giorno, ci sono stavolta pochi spiccioli da dare dopo una giornata intera passata in mare. Ma Franco, capelli biondi e corpo scattante, non si dispiace: e' il suo compleanno e suo padre e' venuto apposta a trovarlo dai dintorni di Barranquilla, e gli ha promesso una torta piena di panna, con una ciliegia sopra. A Barranquilla invece si e' oramai conclusa la gran parata dei figuranti in maschera, tra lanci di farina e grandi sorsi di aguardiente. E Graziela oggi si sente la regina della festa: e' bellissima, se lo dice da sola, con i fiori di carta tra i capelli e il vestito rosso e giallo. Muove i piedi senza sosta al ritmo della Cumbia e non ha tempo per riposare, si dice. Un giorno sara' lei la regina del Carnevale. Solo lo sguardo dell'amico Francisco che la osserva, raggiante, da uno dei palchi della festa, e la saluta con occhi pieni di piacere, la spinge a dar pace ai piedi stanchi per concedersi un bacio su una guancia che a lei, quindicenne con la testa piena di sogni, pare grande come un sambodromo. Si festeggia Carnevale anche nelle baracche di lamiera lungo la strada verso l'Atlantico. Bambini e ragazzini vestiti da gorilla, con i volti dipinti di nero, stanno da ore a presidiare la linea di mezzo della strada, incuranti del gran traffico. Ogni auto un lancio di farina e un segnale di stop per ottenere qualche soldo. E' un gioco di Carnevale pericoloso, l'unica alternativa ai bar con i tetti di eternit dove si impara presto a bere troppo e a fumare colla. La violenza e' un gesto quotidiano, per evitare che chi e' più forte di te abbia la meglio. Dietro una porta, donna Flora cuce l'ennesimo paio di pantaloni da accorciare. Attorno a lei i suoi quattro bambini. Loro il Carnevale lo festeggiano in casa, attaccati alle sottane di mamma i due gemelli più piccoli. I più grandi cantano la canzone del "mamoron" e si guardano allo specchio: indossano dei panama, cappelli di paglia bianca con la fascetta nera che donna Flora ha comperato a tutti al mercato, per la festa più attesa dell'anno. Ma i ragazzini in strada non ci devono andare, donna Flora ha paura. E cosi' si fa festa in casa, con platano fritto , succhi di frutta e tanta musica. Il martedì, il Carnevale muore e con lui se ne vanno anche i sogni piu' anarchici. E si attendera' un nuovo anno, una nuova festa per sognare.

venerdì 20 febbraio 2009

Calle de la estrella

In calle de la Estrella la sentono ogni giorno, dal tramonto, quella musica. Gli ambulanti smettono di urlare per vendere zanahoria, tomate, cocco e maracuja e alzano la testa per ascoltare la melodia che proviene dalle finestre aperte, al secondo piano, del palazzo dove abita Juanina Da Silva, la insegnante di musica. Tutti i giorni, dal tramonto alle nove della sera, la signorina Juanina si siede al pianoforte e comincia a suonare. Passa tutto il giorno ad insegnare scale e solfeggio ai giovani delle famiglie bene di Cartagena, e al calar della sera chiude il portone di casa, congeda la governante, e si ritira nella stanza da musica. Apre le grandi finestre che danno su calle de la Estrella, si siede davanti al pianoforte, si sfiora le mani, allenta il colletto della camicetta e scioglie i lunghi capelli castani. Poi comincia a suonare. Davanti a lei non ci sono spartiti, la musica le esce dalla testa e dal cuore. Loro comandano i movimenti delle dita sui tasti bianchi e neri. E in calle de la Estrella tutto si ferma. Tacciono i venditori ambulanti, fanno silenzio anche gli studenti della vicina scuola di odontoiatria che smettono il cicaleccio divertito da adolescenti in libera uscita. Anche i turisti, sentendo la musica, alzano il naso sudato verso le finestre del palazzo e ascoltano la struggente e solitaria melodia. Che ogni giorno e' diversa, come ogni tramonto mai e' identico a quello che lo ha preceduto. Il concerto di Juanina inizia quando il sole scende a baciare il mare e scompare dietro le mura della citta' vecchia. Il canto del suo pianoforte parla d'amore, le note scendono in strada lievi o decise, irruenti o quasi timide. E calle de la Estrella ogni sera si ferma ad ascoltare la melodia che esce dal cuore di Juanina Da Silva. La seria insegnante di musica di Cartagena libera cosi' il suo desiderio che nasconde dalla mattina fino al tramonto. E lo libera solo quando il sole bacia il mare; e' il desiderio ad ordinarle di suonare, per raccontare una storia. La sua passione per Alvaro Hernandez, il libraio di calle de la Estrella. La libreria di Alvaro stava davanti al palazzo della Da Silva. Un giorno il libraio aveva attraversato la strada e bussato al portone del palazzo, con una richiesta. "Voglio avere l'orecchio assoluto. L'ho letto su un libro; lei, maestra, mi insegni ad averlo", fu la richiesta del libraio. Juanina guardo' stupita quel quarantenne, con gli occhiali e i capelli lunghi, il fisico asciutto e gli spiego' che l'orecchio assoluto era una dote, un dono e che non si poteva imparare. O ce l'avevi o no. Ma l'insegnante poteva comunque aiutare Alvaro Hernandez a studiare per imparare a conoscere la musica. Ci voleva costanza e dedizione. Alvaro accetto' subito ma quando senti' il prezzo per le lezioni che gli veniva richiesto, penso' di rinunciare: non poteva permettersi quel costo, aveva ancora un anno di affitto della libreria da pagare e gli affari non decollavano. L'insegnante gli sorrise e offri' in fretta la soluzione: ogni tre lezioni, una sarebbe stata pagata in libri. Come Alvaro aveva sete di musica, Juanina aveva sete di libri. E cosi' trovare un accordo tra loro fu facile. Tre volte la settimana, Alvaro al tramonto chiudeva bottega, attraversava la strada e andava a studiare musica fino alle nove della sera dalla signorina Juanina. Lo studio presto fu seguito da un fitto dialogo, che durava ore. Lei raccontava le vite dei compositori, lui le storie dei grandi classici della letteratura, da Madame Bovary alle lezioni americane di Calvino, e le portava libri. Un mese dopo, Alvaro entro' nella sala da musica con un pacchetto: dentro c'era un libro di poesie con una dedica: "Musica per il tuo cuore, composta dal mio cervello". Dopo la lezione, consegno' il libro a Juanina e accompagno' il gesto con una carezza sul viso stupito di lei, emozionata per l'inatteso regalo. L'insegnante sorrise e Alvaro si senti' autorizzato ad andar oltre, appoggiando le labbra su quelle di lei e stringendola a se' in un abbraccio dolce e potente. Juanina si senti' persa nel mare in tempesta: sentiva solo un sapore di miele caldo scenderle dalla bocca alla gola e poi, giu' fino al ventre. Non poteva smettere e prolungo' quel bacio. Si sentiva libera: sciolse i capelli, togliendo con un colpo della mano il fermaglio e trattenne a se' Alvaro che le sfiorava il seno. Cercava costantemente le sue labbra al sapor del miele bollente. Si amarono tutta la notte, sul pavimento della sala da musica. Lei avida di calore, lui gioioso di veder godere una donna in quel modo tra le sue braccia. L'alba li accolse felici e spossati, nel sonno. Alvaro si rivesti' in fretta, per lui era tardi. Lascio' Juanina stesa sul pavimento, i capelli arruffati e il volto gioioso di quarantenne senza rughe e dal ventre rotondo. Fu la prima e ultima notte che si amarono. Juanina sapeva che Alvaro era sposato ma lei non voleva allontanarlo dalla sua famiglia. Lo desiderava, lo voleva ieri come oggi e pure domani, e questo le bastava. Ma lui, davanti a tanta passione, si senti' perso, anche lui nel mare in tempesta, ma come un annegato. Divento' sfuggente, e non volle più rivederla. Colpa di Juanina e del suo eccessivo ardore, le spiego'. E Juanina combatte' invano, spedi' lettere senza risposta, cerco' di incontrarlo. Poi scelse il silenzio. Smise di cercarlo. Continuava a vivere come aveva vissuto: le lezioni dalle otto al tramonto, poi dopo cena usciva con Edoardo, il dottore che la corteggiava da anni. Ma dal tramonto alle nove della sera si chiudeva nella sala da musica e lasciava suonare il suo cuore. Di notte Juanina sognava di far l'amore con Alvaro e ogni loro gesto diventava una nota impressa su un ideale spartito, senza il bisogno di carta e matita. Al tramonto quella composizione onirica diventava la melodia che si diffondeva in calle de la Estrella, con la complicita' del vento. La musica arrivava diritta fino alla porta della libreria di Alvaro. Il libraio aveva proibito contatti e lettere, ma non poteva impedire a Juanina di suonare e la melodia del desiderio di lei ogni sera andava a trovarlo. Juanina aveva cercato di dimenticare, si dava ad Edoardo ma nella foga dell'amplesso era sempre Alvaro a far capolino nel suo letto, sottraendola all'abbraccio senza miele e passione dell'uomo che la desiderava da anni. E godeva ricordando la bocca, i capelli, i colpi del bacino del libraio. Una musica corporale e umorale l'aveva imprigionata e quella melodia le usciva da dentro al calar del sole. L'ultimo canto di una voce muta e inascoltata. Lei continua a suonare; Alvaro, invece, ha venduto la libreria. Pur di non sentire il pianoforte di Juanina aveva comperato dei tappi per le orecchie. Non voleva sentire, per non tornare a volere quella donna che non poteva avere, senza distruggere la sua pacifica esistenza di padre e marito. Il desiderio lo puoi seppellire ma non scompare e la musica di Juanina aveva finito per penetrargli nelle ossa. La sentiva ovunque, tutto il giorno, e comincio' a girare con i tappi nelle orecchie mattina e sera anche quando l'ex amante non stava suonando, e la calle era muta. Fini' che lo considerarono pazzo: la moglie vendette la libreria e gli affido' un pezzo di terra nella villa di campagna dei genitori, a Santa Marta. E Alvaro spari' cosi' da Cartagena, ma, dicono, senta ancora la musica di Juanina in testa. Lei invece ogni giorno al tramonto, lascia cantare il suo desiderio. E cerca invano in altri uomini quel sapore di miele bollente.

martedì 17 febbraio 2009

Cartagena

Uomini in camicia bianca lungo la muraglia, sono li' tutti assieme per guardar il tramonto. E' un rito quotidiano l'attendere che il sole si tuffi nel mare. Per il buio c'e' ancora tempo, questo e' il momento di godere con gli occhi, mentre il vento gonfia la camicia e imbizzarrisce i capelli. Tra cerveza e risate, attendono questo bacio che tinge il cielo di blu e arancio. Lontano, una stella verde ammicca, sorniona. Per il buio, si', c'e' ancora tempo.

lunedì 16 febbraio 2009

Oro y sangre

Oro e sangue. Desiderio e violenza. Allegria e poverta'. Quanti controsensi intorno a me. Quanti dentro di me in questa notte colombiana. Vorrei restare a lungo per capire questa citta' doppia, fatta di oro e sangue. Vorrei restare per capirmi, esplorarmi dentro per legger il mio destino in queste viscere che ballano quando mi passa un nome in testa che dovrei solo dimenticare e che mi trasformano in chica dagli occhi di brace quando nei miei sogni arriva quel signore. Tra le sue braccia resterei a lungo a respirar veloce. Mi sento doppia in una citta' doppia. Mezza penitente e un pochino puttana a passeggio in una citta' di sangue e oro.

giovedì 12 febbraio 2009

Tre chitarre

Le serate perfette. Quelle che partono che non sai come andranno a finire, e poi ti stupiscono per la piega che prendono. Che è spesso quella di cui avevi bisogno e manco sapevi che ti serviva. Baccalà, frittura, pinot grigio, il caffè di Eddy, le ciacole sul mangiar bene, le sigarette Pueblo da provare che sono senza additivi, la marsala e le meringhe alla liquerizia che ti sciolgono dentro e ti fan venir voglia di far l'amore. Ma è il momento delle risate, delle battute sul ristorante giapponese dove si mangiano attributi sessuali, e il vicino di tavolo, che mangia solo ed ha come compagnia solo il cellulare, alla fine si stanca e se ne va. Infastidito da troppa baldanza. Noi lì si starebbe ore a contarsela, a parlar di miele e vino buono, ma poi arriva la stanchezza dell'oste che conta quattro volte i soldi del conto. Lui è stanco, ma gentile, dice che è colpa mia, che lo guardo e lo emoziono. Sa far bene il suo lavoro, non c'è dubbio. E sa perfettamente che torneremo. Non è finita, non si va a casa. Siamo dei professionisti, ce lo dice lui che lo sa come siamo. E allora, visto che lo sa e lo dice, ci si sposta più volentieri. Di poche centinaia di metri. Interno birreria.
Tre chitarre che spuntano non sai neanche da dove. Quattro birre al profumo di "maria" e geranio da smezzare con gli amici. Sai bene da dove arrivano, sei lì per loro. Rock anni sessanta e settanta di qualità. Sgabelli e bagigi. E tu che ti rilassi e canti, anche se le parole in inglese non te le ricordi tutte. E poi il bancone che diventa il bar del porto, dove la gente passa, saluta , si racconta e va. C'è un sessantenne Elvis che colleziona musica, ha 1400 cd e dischi in vinile, e la musica è la sua vita, dice , ma lui non sa suonare forse neanche il campanello di casa a tempo. C'è il capelluto ragazzone che tra poche ore parte per la Polinesia per gestire un impianto ittico e si ubriaca con gli amici, che lo invidiano un pochino e vorrebbero andarsene come lui. Ma loro qui hanno figli, mica donne, ti dicono proprio io non parto per mio figlio, mentre lui, il capelluto, sorride e ti dice che qui non ha niente, se non i quattro fratelli, pure loro girovaghi, e allora si è licenziato e parte. Perché pescare è tutta la sua vita. E' la sua passione, mi racconta. C'è il ragazzo del Petrolchimico, che invidia l'amico, ma sorride e ti chiede di dove sei e si commuove quando si parla del vecchio cinema di Marghera, il Paradiso. Io ci abitavo davanti , lui nello stabile vicino. Ovviamente, non ci eravamo mai visti prima. Lì sai, mi racconta, ho dato il mio primo bacio ed ora non c'è più. E le tre chitarre vanno avanti, scatenate.

Volver

Dopo una splendida serata con gli amici cari più un amico nuovo, arrivo a casa con la mia valigia. Pronta a riempirla per partire domattina. Mi attende una nuova avventura, stavolta la Colombia, con il mio amico di sempre, Reby.
Parto con il cuore lieve dopo giorni difficili. Voglio bene ma non so affatto cosa mi attende al rientro. Spero non indifferenza, ovviamente, ma quel che dovevo dire l'ho detto e questa sensazione di leggerezza è piacevole, adesso.
Mi amo e amo ancora di più il mondo che mi circonda. Non ci sono dubbi, e non c'è muso che tenga a farmi cambiar idea su persone importanti, che hanno lasciato il segno. Il mio affetto rimane, anche se non c'è compartecipazione.
Poco importa, ora, se io non ho ottenuto il risultato analogo , come onestamente temo.
Io voglio bene comunque, e quando voglio bene, sono più viva e come mi suggerisce, argutamente, l'amica Simple, succede ora che non parto triste ma pronta invece a sentire, sorridendo. Insomma, vado a far il carico di sensazioni. So cosa voglio essere. Una cantastorie.
E come dice la canzone: "E anche se il dimenticare, che tutto distrugge,
avesse ucciso la mia vecchia illusione, guardo nascosta una speranza umile che è tutta la fortuna del mio cuor"

Come sempre, tornerò cantandola questa canzone. Con il sorriso e senza tristezza.

Ritornare (Volver)

Io indovino lo sbattere delle palpebre
delle luci che in lontananza
sottolineano il mio ritorno…
sono le stesse che illumirarono
con il loro pallidi riflessi
ore profonde di dolore…

E anche se non ho voluto il ritorno
sempre si ritorna al primo amore…
La strada vecchia dove l’eco disse
tua è la sua vita, tuo è il suo amare,
sotto lo sguardo beffardo delle stelle
che con indifferenza oggi mi vedono ritornare…

Ritornare…con la fronte appassita,
le nevi del tempo argentarono la mia tempia…
Sentire…che è un attimo la vita,
che 20 anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina
Vivere…con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta…

Ho paura dell’incontro
con il passato che ritorna
ad affrontare la mia vita…
Ho paura delle notti
che popolate di ricordi
incatenano il mio sognare…

Però il viaggiatore che fugge
prima o poi arresta il suo andare…
Ritornare

Io indovino lo sbattere delle palpebre
delle luci che in lontananza
sottolineano il mio ritorno…
sono le stesse che illumirarono
con il loro pallidi riflessi
ore profonde di dolore…

E anche se non ho voluto il ritorno
sempre si ritorna al primo amore…
La strada vecchia dove l’eco disse
tua è la sua vita, tuo è il suo amare,
sotto lo sguardo beffardo delle stelle
che con indifferenza oggi mi vedono ritornare…

Ritornare…con la fronte appassita,
le nevi del tempo argentarono la mia tempia…
Sentire…che è un attimo la vita,
che 20 anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina
Vivere…con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta…

Ho paura dell’incontro
con il passato che ritorna
ad affrontare la mia vita…
Ho paura delle notti
che popolate di ricordi
incatenano il mio sognare…

Però il viaggiatore che fugge
prima o poi arresta il suo andare…
E anche se il dimenticare, che tutto distrugge,
avesse ucciso la mia vecchia illusione,
guardo nascosta una speranza umile
che è tutta la fortuna del mio cuore.

Ritornare…con la fronte appassita,
le nevi del tempo che argentarono la mia tempia…
Sentire…che è un attimo la vita,
che 20 anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina
Vivere…con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta…

Ritornare…con la fronte appassita,
le nevi del tempo che argentarono la mia tempia…
Sentire…che è un attimo la vita,
che 20 anni non sono niente
che febbrile lo sguardo, errante nelle ombre,
ti cerca e ti nomina
Vivere…con l’anima aggrappata
a un dolce ricordo
che piango un’altra volta…

mercoledì 11 febbraio 2009

presa d'atto, senza ansia

“ci sono persone che mi mancano cosi’ tanto che non mi rassegno al non mancare a loro.
Ma alla fine, ci si rassegna sempre. Ma non alla mancanza, al non mancare”.

Ho un difetto, anzi più di uno. Sono incapace di odiare chi non mi vuole. Cerco di riparare le cose che si rompono nella speranza di farle tornare in funzione. E penso che l'amicizia possa superare anche prove difficili, ma che prima o poi torni ad esprimersi. Ho anche un altro difetto. L'aver sofferto di ansia mi ha portato in una fase recente della mia vita a porre me stessa al centro dell'universo. E questo ha prodotto danni che mi fanno male, anche se mi è stato spiegato che era un ovvio percorso terapeutico e che l'aver provato questo è un passo deciso verso la guarigione.
Insomma mi si dice che sto meglio ma io sto anche peggio, perché questa fase ha prodotto situazioni che non volevo si verificassero e che oggi non sono nelle condizioni di sistemare. Salvo starci male. Perché solo gli stolti o i cattivi non provano niente.

Questo è lo spirito con cui mi preparo a partire.

Il sale

Le lacrime sono come il sale, scottano sulla ferita del cuore spaccato in due. Non c'è rimedio agli errori, la buona fede non preserva e non assolve e chi è senza Dio non ha neanche l'ausilio della fede per cercar conforto. Agli errori non c'è rimedio, non c'è salvezza, resta il sangue della ferita, che a un certo punto neanche più tamponi, tanto male fa la scottatura delle lacrime salate che lasci sulla carne viva. E il dolore è così forte che speri che ne arrivi uno di grado superiore ad alleviarlo, annullando il sentire nello spasimo estremo del laceramento. Ti aspetti la bestia , che arrivi a punirti, maciullandoti le carni con cattiveria. Perché ti aspetti quello, un estremo male che annulli il dolore costante, che ti faccia cacciar un urlo e svenire, mentre lui ti scarnifica. Hai tradito, hai deluso, hai rovinato. Solo chi crede attende una prova d'appello. Chi non ha questo appiglio, sa di precipitar nel vuoto e sbattendo sulle rocce sa che si farà molto male ma sarà il pianto a ridurlo ad invocare un male superiore, che cancelli quel dolore. E attende, senza pace, quel che non arriverà. Perché se non credi né a Dio né alla bestia, sei solo fottuto, costretto a convivere con i tuoi errori, con quello squarcio aperto che ogni volta che piangi, sanguina di più anziché cicatrizzarsi.

martedì 10 febbraio 2009

L'uso delle parole

Le parole in questi giorni, e non lo sento solo perché convivo con questa nausea da italianità, vengono usate come armi di distruzione. Anzitutto dei pensieri e della dignità delle persone che la pensano diversamente. E' terribile l'uso facilone e quindi ancor più odioso, di parole pesanti, che sono condanne senza appello.
Un padre che conduce una battaglia per difendere le scelte della propria figlia, diventa "boia" e "giudice". Illustri giornalisti parlano di una battaglia per i diritti come di una difesa del "diritto alla morte", in netto contrasto con la loro morale, specificano, tutta tesa invece alla tutela del "diritto alla vita".
Chi in questi giorni ha detto no alla strumentalizzazione di questo caso , voluta per obiettivi politici ben diversi, viene additato come "assassino" e finisce irrimediabilmente ad ingrossare le fila di quello che viene oramai considerato, da taluni, come il "partito della morte". Concedere ad una persona il diritto ad una morte che metta fine a sofferenze di decenni è un "omicidio", che va fermato altrimenti si può incappare nel reato di "omissione di soccorso".
E' capitato in Parlamento ma anche in qualche Consiglio comunale, come sui blog di alcuni che hanno espresso la loro volontà di avere una legge sul testamento biologico, di sentir urlare quel "assassini".
Una parola che è una condanna senza appello, non un tentativo di comprensione di una opinione diversa. L'esagerazione nell'uso delle parole è un pericolo che ritorna costantemente in Italia. Ogni volta che si parla di aborto, di cura delle malattie rare con l'utilizzo delle cellule staminali, di coppie di fatto o di scelte sessuali.
L'aborto è un "omicidio", chi non sceglie il matrimonio compie "un attentato" all'istituto della famiglia. Alcune scelte sessuali sono "contro natura". Chi è di sinistra, mettiamoci dentro anche questo esempio, è un "comunista", poi. Termine che si riferisce ad un grande partito italiano ma che oggi, a suon di essere ripetuto con odio, viene visto da molti come un insulto, fortemente negativo.
In un paese che ha fatto dell'amoralità un vanto nazionale, oggi si colpiscono storie personali, convinzioni, scelte a colpi di morale, dividendo la nazione tra chi andrà in Paradiso e chi invece finirà all'inferno.
E le parole sono le armi per questa operazione che ha molto a che fare con il razzismo dilagante nei confronti degli immigrati, con le schedature di barboni, l'obbligo alla delazione anche dei medici.
Si scheda la nostra società. Si separano i buoni dai cattivi. Per capire meglio chi colpire, poi.

domenica 8 febbraio 2009

Piccola

Sono così piccola che a volte cammino in mezzo alla gente con il naso all'insù per vedere che succede a quelli più grandi di me, che hanno risposte per tutto, che sanno che direzione precisa ha preso la loro vita.
E sto male quando vedo l'indifferenza attorno a me, l'uso delle parole come armi da guerra, il calpestio continuo delle dignità altrui, la licenza del tu quando non è lecito manco dar del voi perché si dovrebbe star in silenzio, davanti al dolore, e tacere, vergognandosi un pochino di aver aperto bocca solo per portar acqua al proprio mulino della siccità.
Mi sento piccola quando il dolore è troppo grande da descrivere, mi sento piccola davanti agli amori veri, che ti lasciano senza fiato. Sono piccola quando mi accorgo di far del male, senza volerlo, per il mio eccessivo entusiasmo di vivere con me e con gli altri. Mi sento piccola e nuda quando vengo vivisezionata, senza attenuanti. Mi sento piccola ora davanti a questo specchio, sola in questa casa, dopo una giornata di parole afone, che non mi hanno vestito e protetto.

Cin cin 2.0


sotto vedete tutte le foto, in 13 abbiamo brindato su Friendfeed stasera via web. Un cin cin 2.0 per giocare, brindare senza un motivo per stare tutti assieme. Anche se il momento non è dei migliori, eh, c'è chi ha ancora voglia di giocare. E siano allora ringraziamenti
a Hoshimem, Alessandra Nastrorosa, Missstrong Ale, Maxime e il suo pargolo, Mariposa, Linda, Nemo, Felter, Carlo B. Brodo, Teiluj, Paz83Castellani.
Grazie: stavolta abbiamo fatto davvero un bel gruppo e l'esperimento è riuscito.
Hic, alla prossima

venerdì 6 febbraio 2009

Rispettate le mie scelte

Non faccio nulla scrivendo quel che sto per scrivere che chi mi ama non sappia già. Nella mia famiglia di questo si parla da tempo, e siamo tutti d'accordo. Sappiamo cosa dobbiamo fare, uno per l'altro. Per rispettare le scelte di ciascuno di noi. Ma ora che assisto, con l'unica possibilità dell'indignazione, all'orribile teatro messo in scena per impedire ad Eluana Englaro di andarsene, come lei e la sua famiglia hanno sempre voluto, è per me una necessità dire chiaramente quello che voglio. Perché nessuno possa dire di non sapere. Perché nessuno possa parlare di omissione di soccorso. Perché nessuno possa più neanche sussurrare che una persona in simili condizioni potrebbe procreare.
E voi tutti che leggete, ne siete testimoni. Come lo sono i miei amici e parenti.
Se sarò, un giorno spero molto lontano, ridotta ad un essere vegetale, non voglio essere tenuta in vita da alcuna ventilazione, alimentazione artificiale, o macchina che ci sia. Voglio che mi lasciate andare. Nessuno si preoccupi, non sarà un omicidio, sarà invece un bel modo di aiutarmi a sorridere ancora.
Perché non posso immaginarmi costretta in un letto, con il cervello nullo, le piaghe da decubito, gli occhi spenti, la bocca che non si apre. Non sarò io quel corpo inanimato, non ci sono rigurgiti che tengano che possano dire che quella sarebbe una vita che merita di essere vissuta. Non perché lo dice la morale o la religione altrui, ma perché sono io a dirlo. Preferisco anche che chi mi ama non soffra vedendo il mio cervello e il mio corpo ridotti in quegli stati.
Preferisco essere ricordata, più che tenuta attaccata, mio malgrado, ad un respiratore che allungherà solo la mia agonia. Della mia vita, voglio scegliere fino in fondo, come sto facendo oggi, che sono sanissima e nel pieno delle mie facoltà mentali. Io mi amo mentre amo, mi amo mentre ballo, mi amo mentre sorrido, mentre corro, mentre passeggio. Mi amo mentre scrivo in questo momento, mentre regalo un bacio o un sorriso a chi desidero, mentre conforto chi sta male, mentre scappo da chi mi fa del male, mentre regalo una carezza, preparo una cena o la valigia per partire. E voglio amare, parlare, stringere, toccare, dare. Io sono questo oggi, un essere che vive, che sente, che prova, che desidera. Se non sarò, un giorno, più nella possibilità di dire una parola, muovere un dito, fare un movimento con l'occhio, voglio esser lasciata libera di andarmene. Dove? Dove voglio io, per correre, amare, gioire di nuovo.
Chiedo, insomma, solo una cosa: che la mia scelta venga rispettata dal mondo che mi circonda come viene rispettata da chi mi conosce e mi ama.

Questo è il mio testamento biologico,
in fede della Costituzione italiana

Mitia Chiarin

Mio nonno

Post del 26 aprile 2008

Mio nonno è un giardino.
Ci passo davanti spesso
Guardo verso di lui e lo saluto.
Col frusciare degli alberi
lui ricambia a volte con vigore,
a volte con un lieve rumore di foglie
Non ho ancora capito bene se
assieme al saluto
arrivi anche un messaggio.
Io la sua voce non l'ho mai sentita
Una granata gli ha impedito
oramai troppi anni fa
di conoscermi, di insegnarmi
a camminare e a giocare.
Ma lui esiste ancora
accanto ad una quercia
che non smette di crescere.


Arturo Chiarin (Mestre 1907 - Silea, Treviso 1945).
Nato a Favaro, visse come pescatore a Favaro, a Burano (Venezia) e a Campalto. Diventò partigiano dal 1943 al 1945, quando morì in un'imboscata dell'esercito tedesco. Nel 1985 fu premiato con la Croce di merito di guerra alla memoria. Gli è stata intitolata una via a Campalto.


Pochi mesi dopo...

Siamo al 6 febbraio 2009
Ripenso a questa poesiola, scritta all'indomani del 25 aprile dopo esser andata a trovare mio nonno in cimitero. Lo faccio da anni perché anche se non l'ho mai conosciuto di persona, io lo amo. Io sono parte di lui. Mio padre, suo figlio, mi ha insegnato a rispettare tutte le idee ma a battermi, fino in fondo, per difendere le mie. E a non aver paura di combattere, se necessario, per difendere una idea. A sei anni mio padre mi aiutava a studiare e mi faceva leggere la Costituzione, spiegandomi che mio nonno era morto per difendere la libertà del suo paese e per consentire a me di vivere in pace, libertà e democrazia. Protetta dalla Costituzione.
Davanti alle parole di queste ore, davanti ai decreti legge razziali, davanti all'obbligo alla delazione, mi rendo conto che adesso sono io che devo proteggerla la Costituzione affinché lei continui a proteggere me.

giovedì 5 febbraio 2009

La solitudine del titolista

Eccolo, altro che refuso. Questa è assoluta ignoranza. Come fai a scrivere che è partita la campagna per il riciclaggio dei rifiuti? Riciclo è la parola giusta da usare. Dovrei chiamarlo Brandolini e dirglielo. Ma non lo prendo neanche in mano il telefono, per chiamare il collaboratore numero 12. Alvise Brandolini, per gli amici il "Branson", che sogna un futuro da nerista, a scriver di omicidi e rapine, e intanto mi mette virgole a pioggia e parole a caso.
Ma lo sanno i miei dodici collaboratori cosa è un dizionario? O lo hanno regalato alla San Vincenzo, destinato a scaldare i falò di qualche senza tetto? No, magari, il barbone, a differenza dei miei collaboratori, il dizionario finisce che se lo legge, se lo tiene come compagnia per le notti tristi, quando il vino non scalda e la solitudine avanza con la falcata di un esercito invasore.
Io di solitudine me ne intendo, e so che i libri sono meglio di certe amanti volubili. E mi deprime aver a che fare con tutti questi "Branson", che non sanno ancora scrivere un articolo e che manco rileggono il giorno dopo il loro lavoro pubblicato. Giovani che si sentono giornalisti d'assalto, ma ragionano a moduli. Tot moduli, tot soldi e la regola è scrivere tanto. Per guadagnare. Li capisco, io ai miei tempi prima di esser assunto al giornale ho fatto il precario per cinque anni e i soldi non mi bastavano per pagare la benzina e da mangiare e comprarmi una raffica di scarpe viste le suole che ho consumato.
Ma scrivere in un giornale non è solo un bel lavoro. E' un impegno, un miglioramento quotidiano.
E questo i miei dodici collaboratori, invece, credo non lo sappiano affatto.
Io sono un deskista, una volta si sarebbe detto il titolista. Lavoro in un giornale di provincia da 25 anni. Di fatto, non faccio più il giornalista da sei anni. Anche se i vecchi amici di un tempo, la gente che mi ha conosciuto per i miei articoli sulla malasanità negli ospedali, mi telefona ancora e qualcuno, dice, rimpiange la mia penna avvelenata. Quando esco a passeggiare nel mio giorno di riposo, in paese tutti mi salutano con la reverenza che si usa ancora in campagna a chi ha un ruolo sociale. Ma io oggi sono solo un deskista. E un ruolo sociale manco so cosa sia. Faccio titoli. "Il sindaco tal dei tali apre ai comitati anti-traffico". "Rapina vecchietta e scappa in scooter". Alla fine sono una specie di cuciniere del giornale. Passo i pezzi degli altri, li metto a misura, tolgo strafalcioni e refusi, se serve cambio attacchi indecorosi, elimino una tempesta di virgole gettate a caso e poi preparo titoli e sommari, cerco foto.
Lavoro di "cucina", altro che la caccia della notizia. Ogni tanto quando serve, mi chiedono ancora di scrivere ma finisco con il "passare" comunicati. Veline che vengono ridotte o allungate, a seconda dello spazio. E ogni giorno che passa, tutto questo diventa sempre meno divertente. Non mi innamoro più di niente. Del lavoro come delle belle donne. Tra le collaboratrici del giornale, alcune sono davvero carine. Ma sono giovani, ed io oggi solo solo un attempato deskista. Che ha perso il senso della notizia. E dell'amore.
Leggo cose che mi annoiano, figuriamoci se credo che i lettori faranno la ressa in edicola per leggere quel che scriviamo. Se mandassimo in stampa un giornale senza una parola scritta, pagine bianche che seguono pagine bianche, non farebbe differenza. E non c'è manco più il rito di inserire almeno una bella notizia al giorno. Si va a caccia dello scoop, della storia pruriginosa o sanguinolenta sperando di vendere di più. Il giorno dopo, noi e la concorrenza, scriviamo praticamente le stesse brutte storie, scritte male. Ma io ho un piccolo segreto, che mi aiuta ogni tanto a sorridere.
Un giorno ero solo con quattro pagine da disegnare e assemblare. Alla quarta pagina, un pezzo di una decina di moduli era saltato. Il buco di pagina andava coperto con altro e io non avevo niente da usare come riempitivo. Sono rimasto un'ora a cercare, tra telefonate ai collaboratori e ricerche sulle agenzie e tra le pagine web. Niente, io non vedevo una notizia che valesse la pena pubblicare. E allora, stanco e infastidito, mi è venuta l'idea: ho tirato fuori dal cassetto la raccolta di poesie di Neruda e ne ho ricopiata una. Tanto, mi sono detto, nessuno legge i giornali. La gente si ferma ai titoli, il più delle volte. E quindi nessuno si sarebbe accorto che al posto di un articolo c'era "Perché tu possa ascoltarmi". Il titolo era completamente diverso, non c'entrava niente con la poesia. "Incontri di ascolto per cittadini".
Sono andato a casa sorridendo ma poi, durante la notte, mi è venuto il rimorso. Mi sono sentito un impostore, avevo tradito la regola della notizia.
L' indomani sono arrivato in redazione, preoccupato. Temevo che i capi si sarebbero accorti della sostituzione e che il direttore mi avrebbe convocato nel giro di dieci minuti per una sonora lavata di capo. E se se la prendeva di brutto, rischiavo un richiamo scritto da parte dell'azienda.
Ho passato la giornata come se fossi in attesa di un castigo e invece nessuno mi ha convocato in direzione, nessuno mi ha detto nulla. Neanche una telefonata di protesta da parte di un lettore. La poesia era passata assolutamente inosservata.
Da quel giorno, quando ho un "buco" in una pagina, non sto neanche a preoccuparmi: apro la raccolta di Neruda e pubblico un pezzo di una sua poesia. Intera o parziale, non è importante.
Uso solo le colonne in basso, per non dare nell'occhio. Evito di farlo più di una volta ogni quindici giorni.
Ma questo, lo ammetto, è diventato il mio momento di gioia. E' un sabotaggio, quasi, ma mi piace così tanto, che la scorsa settimana ho tolto un pezzo su una sagra di paese che era una lista di date di ballo liscio, per inserirci una poesia mia. Poche righe che avevo scritto alcuni anni fa, dedicate ad una donna che ho amato e mai avuto.
Da un ripiego sono passato ad un sabotaggio lessicale premeditato, è vero. Ora vado al lavoro con un piccolo sorriso di soddisfazione. Alla mail del mio settore, che fortunatamente controllo io, arrivano alcune lettere di lettori che dicono di aver letto la poesia, che è loro piaciuta, che vorrebbero una rubrica. E chiedono ogni volta come mai mettiamo dei titoli così istituzionali e spesso per niente legati al messaggio del testo. Io le metto tutte da parte, nel mio archivio personale. E rispondo a tutti, così sono certo che non scriveranno di nuovo, magari al direttore. Spiego che si è trattato di un errore di impaginazione ma che segnalerò alla direzione l'interesse per un piccolo angolo della poesia. Insomma, vedremo cosa si può fare, gentile lettore che non sei disattento. Io ci scriverei anche : grazie di non essere una mosca bianca. Ma poi lascio perdere. Ora, comunque, una volta ogni 15 giorni sorrido alla mia scrivania. Sono un titolista ma ogni tanto, io, al posto di inutili notizie, spaccio poesia.

Being orata

L'orata è buona da mangiare, ma che vita fa? Nuota finché non finisce a sfamare gli appetiti di chi è più grande e forte di lei, sia pesce o umano, quello non è importante. Ha alternative? Una sola, nuotare più veloce degli altri. E' pure ermafrodita al concepimento e a due anni modifica il proprio sesso. Insomma mica so bene se è bello o no sentirsi una orata. Sarà che ho cucinato pesce tutta ieri, sarà che a me il pesce piace ben più della carne, sarà, sarà cosa, non lo so. Ma oggi mi sento una orata, che ha bellamente evitato di finire sulla teglia del forno con un contorno di patate ed un limone in bocca.
Ieri mi pareva di esser una seppia, perduta nelle acque scure causate dalla propria iper auto produzione di inchiostro nerissimo. Oggi, io l'orata, mi ritrovo nello stesso mare, ma almeno l'acqua è limpida. E predatori ed ami così li vedo benissimo.
Buona nuotata a tutti.

martedì 3 febbraio 2009

L'urlo nella notte

Il desiderio è come una lupa che ti vive dentro e ulula anche se stai zitta. Nessuno la sente, solo tu la percepisci, netta.
Senti quell'urlo nella notte, quella voglia che sale dalla pancia e arriva diretta alla gola e cerca strada fino alle labbra. E tu, silenziosa, la ricacci indietro con la lingua sperando che nessuno lo senta, quel vibrare interiore che è la tua voglia. Il desiderio si ammansisce, si mortifica, si scaccia, si prende a pedate, ma di notte ritorna. Perché combatte, anche contro di te. Dovresti vivere con lo schioppo puntato verso il tuo addome, per tenerla a bada. Lei vaga, guardinga, alla ricerca di un varco per uscir veloce poi nel prato ad ululare alla luna. Che splende con la sua pelle chiara e assume le sembianze del tuo desiderio, ha i suoi occhi, il suo corpo, le mani gentili. Lei la lupa sa aspettare il momento buono, non è come te che inciampi e cadi e ti rialzi e non vuoi più sentire niente. No, lei aspetta che le tue difese si abbassino, quando di notte il tuo cervello non fa più il guardiano ed esce ad urlare tutta la sua bramosia di carne, di pelle, di saliva, di umori e profumi. E non smette di ululare alla sua luna, alla sua voglia, al suo desiderio di unirsi a quel punto luminoso, così lontano, ma che vorrebbe gli si schiantasse addosso. Ogni notte.

lunedì 2 febbraio 2009

L'erba e le fragole

Guardarti correre, volevo guardarti mentre correvi, alzando le gambe in aria, saltellando in preda alla gioia. Ma quando mai hai pensato che io invece volessi infilarti un cappio al collo e farti girar in tondo come il miglior puledro dal pelo lucente, da strigliare tutte le mattine per tenerlo pulito? Non volevo tener in mano delle redini, semmai volevo correre pure io, magari mano nella mano, o in una rincorsa scatenata per veder chi arriva primo. Oppure volevo starmene seduta nell'erba a guardarti correre da solo, felice, entusiasta, con i capelli scarmigliati, la faccia arrossata. E se non tornavi dalla tua corsa mica mi sarei disperata. Non avrei armato i cavalli per darti la caccia. No, sarei rimasta distesa in mezzo all'odore dell'erba appena falciata, giocando a imprigionare un raggio di sole. E a inventar storie per addormentarmi senza aver mai la paura di morire. Serena, distesa nell'erba, a sfiorar le mie gambe aprendole al passar del sole. Perché tanto, prima o poi, senza star a lì a tener di conto le albe e i tramonti, tu saresti tornato per offrirmi un vino fermo, un sacchetto pieno di fragole, e un foglietto con la lista dei tuoi sogni realizzati.

domenica 1 febbraio 2009

La tira ossi

Zia Ester aveva un potere. Mia madre me lo diceva sempre. "Comportati bene con lei, che è una mezza strega". A guardarla , seduta nel salotto di casa, intenta a sistemarmi l'ennesimo dito gonfio dopo una partita con i ragazzi al campetto da basket, mica ci credevo tanto. Era piccolissima, la zia. Piccola come può esserlo una bambina. Ma aveva le rughe a testimoniare che gli anni per lei erano passati. Mi diceva mia madre che aveva passato gli ottant'anni. Ma a me sembrava solo una bambinetta rugosa, con gli occhi vispi. E silenziosa.
Zia Ester parlava pochissimo. Con l'uovo guariva ogni genere di dolore, contrattura, dito rovinato dai nostri giochi di bambini. La chiamavano tutti nel vicinato quando serviva una che "tirasse gli ossi".
Una sorta di fisioterapista di paese. Ma lei in più aveva una dote. Lo disse lei stessa con poche parole, un giorno che oggi sembra un secolo fa, mentre mi sistemava una caviglia gonfia come un melone. "Io sento".
Sentire, quello era il segreto del potere della Zia Ester. Mia madre, devota donna di campagna, passata non senza patemi d'animo, dalla condizione di religiosissima figlia di contadini a moglie di un comunista incallito, allergico all'incenso e a qualsiasi funzione religiosa, la definiva come una mezza strega. Non strega intera, di quelle che fanno i riti magici e ti appioppano fatture e maledizioni. Mezza, invece. Quindi una strega ma buona e innocua. Ovvero, come tentò poi di chiarirmi mio padre, una donna che sente le cose, prima che accadano e magari te lo dice pure. In realtà zia Ester non diceva proprio niente, ma sentiva e teneva per sé. Salvo uscirsene in qualche rara occasione con una affermazione che poteva spaccare in due qualsiasi umano di passaggio. Perché inattesa e imprevista. Te la ritrovavi spesso per casa, perché viveva da sola e tutti i parenti, a turno, si prodigavano per invitarla a pranzo o a cena. Era zitella, non si era mai sposata. Le cugine mi raccontarono che lei si era innamorata così tanto di un soldato, che quando lui partì per la guerra e poi non si fece più vedere, lei pianse per mesi e poi disse a sua madre che sarebbe rimasta da sola. E così fu. Non prese i voti per diventare suora, solo perché lei odiava fortemente tutti i preti. Li considerava espressione del demonio. E così diventò la "tira ossi" del paese. La pagavano poco oppure le garantivano uova, galline, musetti e quant'altro fosse prodotto nelle case di campagna della zona. E quando sua madre morì la casa restò a lei e tutti si prodigarono per garantirle un aiuto economico. Tutti in paese erano sicuri che lei fosse vergine, perché non l'avevano mai sentita parlare di sesso o uscire con un uomo. Per lei il mondo era esclusivamente al femminile. Solo donne voleva attorno a sé, gli uomini li vedeva solo se doveva curarli.
"Io sento", mi disse quel giorno la zia. Stava stendendo l'impasto d'uovo sulle bende che mi avrebbero stretto fortemente il piede gonfio. Poco prima mi aveva "tirato" i nervi, toccando le dita del piede, una ad una. Io stavo ancora bestemmiando dal male, con mia madre in sottofondo intenta a ridere e a farsi ogni tanto il segno della croce, quando zia abbassò ancora di più il tono della voce e mi disse. "Non preoccuparti, arriva". E poi aggiunse quel "Io lo sento". Io rimasi con un sorriso a metà, decisa a non mostrare quanto ero stupita da quella affermazione, che mi era arrivata addosso come un sasso lanciato dalla finestra. "Perché me lo dici, zia? E cosa arriva? ", provai a chiederle. Ma oramai lei era tornata al suo notorio silenzio, con le mani sulla mia caviglia e gli occhi fissi sul piede. Poi andandosene, tornò a sfiorarmi il viso. "Ti sembrerà che non arrivi mai, ma arriverà", tornò a dirmi, guardandomi stavolta negli occhi. Quando la zia morì, lo disse a tutti il giorno prima ma nessuno ci fece caso, perché nessuno capì quel che stava dicendo. Eravamo tutte nel soggiorno di casa sua, le avevamo portato delle uova. Lei era nervosa, quel giorno, come se la nostra visita l'avesse infastidita. Come se dovesse uscire per un impegno. Ma di casa praticamente non usciva mai. "El me ga ciamà, bisogna che vada" disse a mia madre e alle altre due zie che erano con noi. Loro non ascoltarono, io sì, invece. Avevo sentito benissimo quello che Ester aveva detto. E la zia, come se l'avesse capito al volo, girò la testa verso di me. "Digeo ti, che ti ga capìo", mi disse lentamente. Poi si avvicinò a me e mi prese la mano, accarezzandola. E mentre mamma e zie sistemavano casa, pulendo il lavello della cucina e spazzando per terra, zia Ester tornò a parlarmi. Mi fece un discorso strano, che ricordo ancora. Mi spiegò che io dovevo star tranquilla , che era vero che io sentivo, ma non come lei. Ed era una fortuna. Lei sentiva le cose, io le emozioni. Lei sentiva che gli eventi sarebbero capitati, e purtroppo sentiva, invecchiando, sempre più le sciagure e meno le felicità. Io invece sentivo gli stati d'animo e ci avrei convissuto benissimo. Bastava che parlassi poco. Poi tornò a ripetermi quella frase che era un mistero e lo è ancora oggi. "Non preoccuparti, arriva". Non so ancora chi io debba aspettare o se questo qualcosa o qualcuno è già arrivato e io non l'ho visto. Perché il mio sentire, semplicemente non esiste. Zia Ester se ne andò la mattina dopo. L'aveva uccisa nel sonno un infarto. Sul comò a fianco del letto c'era la foto del suo innamorato, il soldato sparito chissà dove. Sul tavolo della cucina trovarono il suo amato mazzo di carte, con cui giocava a scopa, ma che amava anche tenere solo tra le mani per ore, e un foglietto. C'era scritta solo una parola. "Arrivo". A voi parrà strano, ma forse io ho capito perfettamente chi l'aspettava. Ma non mi va di dirvelo. Certi appuntamenti vanno tenuti riservati.

Pensieri a calze lunghe


Quando ero bambina pensavo
che nulla poteva farmi male.
Pensavo di volare felice
a testa in giù
e di incontrare Pippi Calzelunghe
e di andar con lei sul cavallo
e di ridere e giocare, sempre.
Adesso che sono grande penso
che tutto mi può far male
ma vorrei ancora volare felice
a testa in giù
e incontrarla, finalmente, Pippi
e con lei salire sul cavallo
e ridere e giocare, sempre.
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