Fatacarabina

Fatacarabina

sabato 31 gennaio 2009

Il fatto è

Il fatto è che io posso voler bene anche in silenzio, senza dire, senza chiedere nulla, senza mostrare. E' meglio così, che il mondo non si turba, che non si vanno a modificare abitudini e alchimie. Non cambia nulla se io voglio bene, il mondo si muove lo stesso come vuole. Ma il fatto è che se io voglio bene sono viva e sento meglio. Se voglio bene, vedo il mio mondo a colori e spariscono certe sfumature stitiche dal grigio al nero. E quando succede, lo urlo a volte, con gioia, perché vorrei che anche gli altri vedessero gli splendidi colori che l'affetto produce in una vita.

Lea

Stanotte ho dormito bene solo quando nei miei sogni è entrata Lea. Il mio primo cane, il primo animale che mi ricordi di aver abbracciato e baciato. Lei se ne è andata il martedì grasso di troppi anni fa, ma il mio imprinting per lei non è svanito. Si è trasferito nel mondo del sonno, quando la mia mente vaga dove vuole. E Lea, nei momenti tristi, arriva con il suo passo elegante, il pelo grigio, la lunga lingua rosa, gli occhi dolci, di lupa amorevole. Ero la sua cucciola, lo sono anche oggi. Fu Lea ad insegnarmi i primi passi, quando mi tolsero ad un anno il gesso e mi spinsero a camminare. Fu Lea a salvarmi quando pensai bene di andar alla scoperta del mondo attraversando la strada in girello e finendo testa in giù, dentro l'acqua del fossato. Se ne accorse solo lei. Io so quanto quegli occhi dolci potevano modificarsi in una occhiata furente contro i cattivi.
Quando si è accorta che stava per morire, per mano di bastardi avvelenatori, se ne andò lei, nel campo di fronte casa. La cercai per ore. E quando la trovai, stava male, ma mi sorrideva.
Perché sapeva di essere la mia gioia e sapeva che io ero la sua cucciola. Insomma, voleva rasserenarmi.
E' l'imprinting che mi lega a lei, per sempre. E quando serve, Lea c'è. Si stende sul letto, allunga le zampe, fa scivolare la testa sulla mia pancia e respira al ritmo del mio cuore e io respiro al ritmo del suo. E mi rassereno.

venerdì 30 gennaio 2009

Stati febbrili

La febbre arriva raramente ma quando si impossessa di me mi trasforma nell'essere più docile che ci sia. Ho la faccia che scotta, il sudore mi scivola lieve sul seno e mi rende mansueta. Mi ci vorrebbe quell'abbraccio che sapeva darmi mio padre, quando ero piccola e solo lui sapeva farmi addormentare, in preda alla febbre, facendomi accoccolare a cavalcioni del suo braccio. Mi sentivo protetta, allora. Gli anni sono passati e la febbre, sempre più rara, è tornata comunque a rendermi docile. E c'erano altre braccia a coccolarmi ma a volte le coccole non sono gli abbracci, veri e spontanei. A volte quelle si danno su comando per non infastidire. L'ho imparato come ora imparo a star con la febbre da sola, io e lei, a farci compagnia. Oggi ho detto ti voglio bene a gratis e ho formato una statua di ghiaccio, che mi sarebbe piaciuto metter in giardino per ricordarmi questo giorno. E' giusto che io produca anche ghiaccio, come è giusto che la febbre me la gestisca anche da sola senza accontentarmi di finte coccole. Io e lei abbiamo molte cose da dirci, stanotte.

giovedì 29 gennaio 2009

Ballata in balla degli amori in potenza

La strada è piena di amori potenziali,
di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo,
di spalle che si sfiorando dentro un ascensore,
di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc.
Gli amori potenziali li puoi vedere solo se non hai il cuore inaridito.
Sono belli ma fragili come foglie in autunno.

Sono due amici a passeggio nella calle
che conversano e non vorrebbero smetter mai.
Sono due vecchi che ballano il liscio
e sentono il ritmo che pulsa come un antidoto alla solitudine.
Sono due ragazzini su una panchina con i libri sulle ginocchia
e le prima sigaretta, nascosta nello zaino, da fumare assieme.
Sono due uomini in discoteca che si sfiorano e si vogliono
perché si immaginano mentre si muovono.
Sono una coppia stanca che torna a camminare
alla stessa andatura solo per sfiorarsi le mani.

La strada è piena di amori potenziali,
di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc,
di spalle che si sfiorano in un ascensore,
di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo.
Li puoi vedere solo se smetti di correre.
Sono belli ma fragili come un cerchio nell'acqua.

Sono gli occhi chiusi di una donna
che ricorda ogni solco della tua pelle.
Sono le mani nascoste nel cappotto di un uomo
che sa quanto potrebbe esser forte la stretta.
Sono i denti della ragazza delusa che si morde le labbra
per non dirti quel che si lascerebbe fare.
Sono i capelli ribelli del dirigente che torna a casa
e ogni sera desidera fermarsi a quel marciapiede.

La strada è piena di amori potenziali
di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc,
di spalle che si sfiorano in un ascensore,
di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo.
Li puoi vedere solo se non pensi che siano inutili.
Sono belli ma fragili come una supernova.

Sono gli occhi dell'adolescente che cercano conforto nell'insegnante.
Sono le mani bagnate della barista che vorrebbe una bocca che le asciugasse.
Sono i fianchi del commesso che sfoglia l'ennesima rivista senza leggerla.

La strada è piena di amori potenziali,
di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo,
di spalle che si sfiorando dentro un ascensore,
di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc.
Gli amori potenziali li puoi vedere solo se non hai la pelle muta.

Sono i tuoi e i miei ricordi.
Sono le menti che non hai voluto assaporare.

La strada è piena di amori potenziali,
di sguardi lanciati salendo le scale di un palazzo,
di spalle che si sfiorando dentro un ascensore,
di parole farfugliate davanti allo schermo di un pc.
Gli amori potenziali li puoi vedere solo se ci credi.

Sono la nostra voglia di vita.

Mosche e serpenti

Tutto bene? Sì, anzi no, che non va bene. Qua si fa finta, ci si autoconvince che tutto giri perfettamente, come un ingranaggio oliato al punto giusto, senza intoppi e senza arranchi. Non va bene, ma mica si può mostrare questo vuoto che hai al posto dello stomaco. Che hai paura che se uno ci guarda attraverso quel buco chissà cosa pensa poi. E se il buco si forma solo perché non arriva un cenno di pace, che riprenda un filo che non volevi spezzare e che invece hai rotto tu, mica puoi star tanto là a dire che non volevi. Non hai uno straccio di scusa.
Quando ti spogli, il buco tu lo vedi, è sempre là dove lo hai lasciato la mattina. Ci passi comodamente il braccio attraverso. Solo che dall'altra parte non c'è una mano che ti aiuti a riempir il foro di malta calda. Dall'altra parte c'è il silenzio prodotto dai passi falsi. I tuoi. Il gradino l'avevi visto, avevi pure preso le misure, poi nella foga sei inciampato e sei volato diritto contro la specchiera, e il cristallo è caduto spaccandosi in mille pezzetti. Avresti voluto passar cento giorni a ricostruirlo, il cristallo, usando una colla gentile ma i vetri rotti ti sono stati tolti di mano. E tu sai che l'aver sbagliato il passo, anche se in buona fede, mica ti assolve. Solo i preti assolvono in fretta, le persone possono benissimo decidere di non farlo, di non perdonare il serpente che è uscito da te. E con un pugno di mosche in mano, e la biscia nel cuore, ha ora due possibilità: o sfami il rettile con le tue mosche o lo lasci morire di fame, sperando che di notte non ti prenda le misure per poi trasformare te nel suo pasto. Devi scegliere ed ammettere di esser incapace di dimostrare che non volevi diventare il padrone assoluto ma ti sarebbe piaciuto solo gioire nel partecipare. Se lo dici non conta nulla, le tue parole sono quelle mosche che hai in mano e dentro quel buco, oggi, c'è solo il silenzio di orecchie sorde e di lettere afone. E ti copri con un carico di maglioni, chiudi le mosche in un vasetto con il tappo areato e il serpente lo scacci a pedate.
Quindi, riformula la domanda per cortesia. Tutto bene? No, ma facciamo che è sì.

mercoledì 28 gennaio 2009

Una alternativa c'è

Ci sono giorni che arrivo a casa tardi e sono così stanca che non riesco a dormire. E allora per conciliar il sonno, che è bastardo e non vuole concedersi come spesso fanno certi uomini che sanno di esser fondamentali e fanno i preziosi, mi metto a pensare. Non conto le pecorelle perché non mi diverto se non corro anche io a far i saltini. E allora mi metto a pensare cosa potrei essere se non fossi quel che oggi sono. E il bello è che scopro che strade davanti ne ho aperte moltissime, è solo il timore di camminarci sopra che mi tiene ferma dal provarci.
Ieri sera mentre lasciavo vagare il cervello ho pensato che potrei aprire una libreria dove si vendono libri e si beve vino, dove la gente arriva e si fa una "ombra" di rosso mentre cerca il libro che vuole comperare. Dove gli amici scrittori e poeti possono venire a creare o a presentare i loro lavori. Dove si organizzano risotti a mezzanotte e se si ha voglia si fanno anche quattro salti, perché ballare fa bene ( e poi a me piace).
Pensavo ad una libreria ma anche ad un centro per i professionisti stressati, con le stanzette dove schiacciare un pisolino durante la pausa pranzo. Un bel bar per un pasto veloce ma anche altre stanze, dove sfogarsi o rilassarsi. Una bella sala tutta avvolta da materassi dove spaccare qualsiasi cosa si voglia oppure una dove star a farsi massaggiare i muscoli della faccia con la risatoterapia.
Ho pensato poi che potrei andar a far la fruttivendola e vendere patate che, come dice la pubblicità fanno diventare più intelligenti, ma anche fragole e ciliegie. Da far assaggiare ai bei signori che vengono a far le spese, senza la consorte, regalando loro anche un sorriso. Che non guasta mai. Fruttivendola, sì, ma con charme, insomma.
E poi ho immaginato di andare a far la clown in ospedale, che quello mi riuscirebbe bene, visto che sono già una pagliaccia tutti i giorni e ridere mi diverte.
Un altro lavoro che potrei fare, quello che vorrei più di tutto fare, è quello di scrivere, vivere per scrivere. E' un desiderio di quelli grossi, che sul comodino mica ci stanno, ma il sentiero che ho davanti è decisamente dissestato: conta soprattutto la mia capacità. E su questo fronte ho tutto da dimostrare a me stessa. E a quel punto ho vacillato un pochino, pensando che ho anche il conto corrente praticamente a secco. E vabbé...
Alla fine mi sono addormentata comunque con il sorriso, perché so che potrei essere altro da quello che sono oggi. E avere una alternativa è sempre consolante.

lunedì 26 gennaio 2009

Non t'arrabbiare

Voi ai fantasmi ci credete? Io qualche dubbio ce l'ho, non lo nego. Ma da quando ho visto quel che ho visto e sentito quel che mi hanno raccontato, mi pongo qualche domanda in più e ho sempre qualche spiegazione razionale in meno da dare. C'era una casa in Toscana, dove si andava con gli amici a trascorrere il Capodanno o l'Epifania e dove ci faceva compagnia un fantasma.
Un tipo giocherellone più che pauroso. Uno che faceva scherzi, principalmente. E che finiva con il far paura, perché ovviamente quel che fa un fantasma mica te lo aspetti e ti riempi di strizza, di dubbi, di interrogativi. E non è il massimo.
Beh, in quella casa il fantasma si divertiva. Probabilmente lo faceva anche per combatter la noia. Stava mesi in quella casa vuota senza nessuno con cui giocare. E poi all'improvviso arrivavamo noi, che eravamo una novità e portavamo musica rock, salami, bottiglie di vino, il Viparo da far caldo e la legna per accendere il camino. E si stava fino a notte fonda davanti al fuoco, a ridere o a giocare a "Non t'arrabbiare", versione indianata. Ovvero, quando l'avversario ti faceva uscire dal gioco dovevi bere un bicchiere di vino rosso. E si finiva spesso ubriachi a cercare il letto giusto dove passar la notte, avvolti da una montagna di coperte. Perché le case vecchie, sperse nelle colline, sono freddissime e in due giorni non le scaldi neanche se bruci la casa intera. Faceva freddo, eravamo spesso in condizioni tali da non ricordare molto il giorno dopo di quel che si era fatto la notte prima. E il fantasma ne approfittava, giocava con noi.
Forse sperava che non ci saremmo mai accorti della sua presenza. Ma come ogni spiritello, lui il segno lo lasciava. Sempre. Potevi esser anche brillo ma se andavi al bagno al secondo piano della casa, con la finestra che dava diritta sul bosco, e ti sedevi sulla tazza del water, lo sentivi di notte. Lui arrivava di colpo: batteva sugli scuri della finestra che avevi di fianco. Cinque, sette, dieci colpi. Come uno che bussa ad una porta. Tu pensavi ad uno scherzo, ma i colpi erano nitidi, perfetti, come di una mano che colpisce ritmicamente il legno. E la finestra stava almeno a sei metri d'altezza da terra. Pensavi fossero i tuoi amici. Ti dicevi che erano fuori nel cortile a farti lo scherzo e magari avevano usato una scala per salire. Allora aprivi la finestra e gli scuri. E non c'era nessuno, c'era solo il bosco davanti a te. Gli amici se ne stavano invece tutti davanti al caminetto a guardare il fuoco. Oppure te ne andavi a letto e socchiudevi la porta della camera, ma senza chiudere a chiave. E la mattina dopo, riposato e cosciente, ti trovavi chiuso dentro la stanza, perché la porta era stata chiusa con quattro mandate. E la chiave mica era nella toppa. E così prima ti toccava aspettare che qualcuno passasse per il salone, sentisse le tue urla e venisse in soccorso. Ma senza chiave mica potevi aprir la porta e così ti mettevi a cercare dappertutto e alla fine, dopo un'ora buona, la chiave la trovavi. Sotto l'armadio che era di fronte alla porta, infilata in fondo, vicino al muro. Per farla arrivare fino a lì avresti dovuto distenderti per terra, infilare la mano sotto l'armadio e infilarla in fondo. Ma tu mica l'avevi fatto e tra l'altro avevi pure paura a chiuderti a chiave in una stanza.
C'era poi la faccenda del busto: raffigurava una parente del padrone di casa che ci ospitava per le vacanze. Era morta giovane ed un artista le aveva dedicato un busto che ritraeva il suo viso serio. Il busto troneggiava sopra il caminetto e mi guardava. Sempre. Potevo essere in qualsiasi punto del salone e lei mi fissava, girava proprio l'occhio per vedere dove ero. Era alquanto imbarazzante ballare con una tipa di gesso che ti fissa seria, tutto il tempo. Ma coprirla con un telo, sarebbe stato offensivo, un affronto nei confronti della buonanima. E così convivevo con lo sguardo arcigno della signora di gesso. Forse lei aveva capito subito che io ero una che marcava male.
Lo spiritello, invece, non mi stava così antipatico. Alla fine lui era un buono che aveva solo voglia di divertirsi un pochino.
Mi salvò una volta da una doccia improvvisa quando gli amici architettarono nei miei confronti il vecchio scherzo del bicchiere pieno d'acqua messo sopra la porta. Quando tu apri, il bicchiere dovrebbe cadere e finirti addosso con tutto il contenuto. Dovrebbe ed uso il condizionale mica a caso, visto che quando toccò a me aprire la porta, il bicchiere rimase perfettamente al suo posto ed io passai indenne. Alla fine io me la ridevo, gli amici mica tanto.
Un giorno ci lasciò anche un regalo: trovammo nell'unica stanza vuota di casa, un disegno. Raffigurava un bambino, un sole, una casetta. Un disegno, sicuramente opera di una mano ragazzina. Ma nella casa da anni non c'erano più bambini. Da anni. Per la verità un giorno, un bimbo venne visto in quella casa. Sfortunamente non fui io a vederlo, anche se ammetto mi sarebbe piaciuto proprio conoscerlo. Il bambino aveva i capelli neri, con un taglio a caschetto anni Settanta e i pantaloncini corti.
Attraversò il corridoio ed entrò nella stanza da bagno mentre una amica si stava lavando nella vasca. Lei lo vide perfettamente, ci raccontò poi, entrare nel bagno, guardarla e poi riuscire percorrendo il corridoio verso il salone. Lei gli corse dietro per capire chi fosse ma arrivata nel salone non c'era più nessuno. Aveva gli occhi neri e liquidi, come se avesse il raffreddore, ma era estate. E sorrideva lievemente. Non faceva paura, mi raccontarono poi, anche se un pochino di freddo addosso te lo faceva sentire. Era un bambino. E con i piccoli, anche se spiritelli, cosa puoi fare? Mica ti puoi arrabbiare, devi lasciarli giocare.

domenica 25 gennaio 2009

E' tempo di ordine

Ho bisogno di fare ordine, e comincio da qui.
Allora da oggi i miei commenti, le mie idee e quant'altro li trovate su

http://remedios.tumblr.com

Hotelushuaia diventa spazio esclusivo per i miei racconti, brevi o lunghi che siano, e le poesie. Divido definitivamente i settori, ovvero lo sfogatoio personale dalla mia passione per lo scrivere, per evitare che si creino inutili incomprensioni e per dare valore a quello in cui credo, personalmente.
Molto spesso mi chiedono se i miei racconti sono autobiografici, oppure c'è chi va a cercare tra le righe di quel che scrivo presunte tracce della mia vita personale.
In questo blog trovate dei racconti. Il mio principio è vivere per raccontare.
Il resto lo lascio ai vostri pensieri.

Il bello delle donne



La cena delle Nordestine è stata il mio debutto in società, nella società del web 2.0, che frequento da un pochino. Sono arrivata in ritardo ( come sempre, per colpa del lavoro) e mi sono ritrovata ospite della dottoressa Dania e di Dadevoti, splendidi padroni di casa, e di undici donne che finalmente avevano per me un volto (e pure belle scarpe) e non erano più solo degli avatar o dei blog che leggo. Ho trascorso una serata piacevole e scherzosa, in mezzo a belle persone. Donne con una gran voglia di comunicare, che è poi il bisogno che ci lega tutte, anche se siamo diversissime tra noi, con obiettivi e pure stili differenti. Me ne sono tornata a Mestre con Niki, mia ospite per la notte, soddisfatta e convinta che queste occasioni di incontro reale siano utilissime per scoprire che oltre al Web, per fortuna, c'è tanto di più. In questo caso, belle donne, ironiche e autoironiche. E adesso vado a comperarmi un boa di piume di struzzo e un paio di scarpe con tacco 12.

Le mie tasche

Ho le tasche che pesano. Sono piene di sassetti. Alcuni sono verdi come l'acqua del fiume e brillano come solo la soddisfazione può illuminare. Altri sono scuri, quasi neri, detriti degli errori che finisci con il commettere, per scelta o per paura, per incapacità di capire. Svuoto le tasche, conto i sassetti, li divido per colore. Ma non butto quelli neri, e neanche sto a calcolare se sono di più di quelli verdi. Metto in fila i sassolini, ci gioco e compongo un mandala nero e verde. Anche il mio cervello oggi è nero e verde.
Vorrei avere anche io un mandala dentro la testa e non un sacchetto pieno di sassolini, buttati alla rinfusa. Vorrei aver chiaro perché a volte ho la capacità di apparire insensibile, quando invece non lo sono mai.
Vorrei aver chiaro perché a volte chiedo abbracci e ottengo invece schiaffi.
Vorrei aver chiaro perché a volte se parlo finisco con l'infastidire.
Vorrei aver chiaro perché a volte credo di regalare gioia e invece produco solo sterco.
Qualcuno potrebbe dirmi che dalla merda nascono fiori bellissimi. E io invece oggi con questo sacco di letame potrei solo costruire una diga per arginare le emozioni. Ed evitare così che mi inondino.
Sarebbe la via più breve. La ferita che mi sono procurata nell'ultima nuotata nel torrente mi ha lasciato un livido doloroso.
Ma nel facile non è detto che ci sia il giusto e non ho voglia di barriere costruite solo per non vivere come voglio.
La diga non è un mandala. La diga è una barriera e basta, il mandala invece è fantasia della creazione, arte della mediazione.
E allora non li tocco questi sassi neri e questo cumulo di stallatico mentale. Li lascio nelle mie tasche, in un punto preciso del cervello, mescolati ai ciottoli verdi di quello che come donna e persona in questi anni sono riuscita a realizzare, trasmettere, regalare, donare.
Un giorno un mandala prenderà forma da questa confusione.

sabato 24 gennaio 2009

Lo sporco

Mi chiedo perché quelle sporche alla fine ci sentiamo sempre noi. Sporchi non si sentono mai gli uomini che violentano. Loro pensano sia divertente violentare una donna. Prenderla con la forza. Nella loro testa, un no è solo un sì, mascherato dalla voglia di far la preziosa.
Un no è invece una scelta che si esercita in qualsiasi momento, anche dopo aver dato un bacio appassionato.
Non voglio fare del sesso con te.
E' una frase che non consente repliche e invece loro vogliono divertirsi comunque, anche se urli, preghi, supplichi, invochi che il tuo no venga rispettato.
Ci sentiamo noi, sporche, dopo. Perché siamo cresciute in una società che ci voleva sante fuori casa e puttane tra le mura domestiche, che vede il nostro corpo come la tentazione. Perché i nostri occhi e i nostri sorrisi invitano. Perché siamo state noi a provocare, vero? Perché lui aveva capito che anche se dicevi no in realtà lo volevi. Perché siamo timide ma alla fine ci stiamo, tutte. Perché portiamo le minigonne, le maglie aderenti, lasciamo intuire le forme del nostro corpo. Perché siamo invitanti.
Perché sappiamo che non si accettano caramelle dagli sconosciuti. E perché le caramelle ci piacciono.
Mica sanno loro, i violentatori, cosa vuol dire sentirsi toccare senza provar piacere, con il terrore che ti scorre nelle vene.
Cosa sanno del dolore che si prova nell'esser improvvisamente solo carne senza scelta, cosa sanno dello schifo che provi nel sentirti addosso l'alito e il peso di un corpo che non desideri. Cosa sanno del male che fa sentirsi penetrare a forza. Hanno mai provato cosa significa sentirsi una bambola su cui sfogare rabbia e violenza?
Sanno che mille lavaggi non toglieranno lo sporco che ti hanno attaccato addosso?
Non lo sanno perché non sono donne e non hanno mai provato a veder i loro no trasformati in consensi muti e docili. Non lo sanno perché non si sono mai sentiti delle bambole da smontare e spezzettare a piacimento.
Non lo sanno perché l'odore dello sporco che portano addosso oramai non lo sentono più.
Si sono abituati a non esser uomini, ma bestie.

venerdì 23 gennaio 2009

La rabbia che sale

Ecco, io mi alzo con il sorriso, con la voglia di dire alle persone a cui voglio bene o anche che solo mi stanno simpatiche, che le bacerei, senza uno straccio di motivo. Solo perché esistono e questo mi rende felice.
Poi leggo i giornali e il sorriso a poco a poco sparisce e monta invece una rabbia, dentro. Leggo di una ragazza stuprata da 5 uomini, che le hanno teso un agguato mentre se ne stava in auto con il fidanzato.
E mi torna in mente ogni volta la strage del Circeo; io avevo cinque anni nel 1975. Sono passati 33 anni e non è cambiato assolutamente niente. E io, dentro, mi incazzo.
Poi penso ad Eluana, al suo corpo che cerca solo un posto dove morire in santa pace, e la rabbia aumenta.
Poi leggo la denuncia, coraggiosa, anche se arriva anni dopo, degli ex bambini di un centro veronese che accusano di pedofilia i sacerdoti che gestiscono quel centro. Non posso dire se le accuse siano vere, io non sono un giudice.
Ma mi aspetto che Ratzi non si limiti alle parole di condanna, ma faccia davvero pulizia nella sua Chiesa.
Non ci credo molto, è facile insabbiare tutto e non fare mai chiarezza. E' più facile nascondere, che dare una giusta condanna che risarcisca ( ma esiste un vero risarcimento?) gli offesi.
Siano donne o ex bambini violati o Eluana che vuole solo morire, fuori c'è un mondo che attende giustizia. E soprattutto che attende che cambi qualcosa per davvero.
E io con loro. E nell'attesa mi incazzo. Che è l'unico modo per far capire che non resto inerme di fronte a tutta questa violenza.

Mi ricordo io

Ieri sono andata da Billy, il libraio. La sua è la libreria più bella della mia città. Entri e senti l'odore dei libri, la gente gira tra gli scaffali con il sorriso. E Billy e il suo collaboratore sorridono pure loro, anche se sopravvivere alla vicinanza del colosso, la grande catena del centro commerciale, immagino sia tutt'altro che facile.
Cercavo due libri, li ho ordinati perché erano in ristampa. Billy non mi ha neanche chiesto il nome. "Mi ricordo io", mi ha detto. Ecco dove sta la differenza con le grandi catene: certo le enormi librerie sono comode, trovi tutto, anche i dischi e il materiale figo di cancelleria, ma la commessa di turno non avrà mai la possibilità di dirti "Mi ricordo io". Ecco un altro motivo per cui amo le librerie, piccole e piene di libri, gestite da uomini e donne che credono davvero nel loro lavoro. Loro di te, che magari entri solo una volta al mese, si ricordano. Quindi non sei un cliente qualunque, sei uno dei loro clienti. E la tua faccia se la stampano in mente. Non sei un estraneo consumatore di pagine. Sono andata via con un libretto piccino che mi stava nella tasca del cappotto. "L'uomo che mangiava i poeti" di Alda Merini.

"Mangiare una madre è pericoloso,
come per un editore è molto pericoloso
mangiare i poeti".

giovedì 22 gennaio 2009

O mi fermate o ridete.

O mi fermate o tacete.
Se partecipare ad ogni esperienza con i sensi mai addormentati significa esser folli, allora io sto bene tra i pazzi.
Se desiderare con il cervello e la pancia è esser bambini, allora io sono felice di esser rimasta piccola.
Se volere bene senza nulla in cambio è esser una illusa, allora me ne faccio pure un vanto.
Se avere la certezza , in nome della libertà, di caricar il mitra, è esser terroristi, allora scansatevi quando passo.
Se aver dentro questa voglia significa essere degli sprovveduti, allora io sono la prima della lista.
Se considerare l'orgasmo il miglior modo per gioire è esser esagerati, allora esagerazione è il mio secondo nome.
Se dare più valore alle storie che ai soldi, significa esser destinati alla povertà, allora io sono una accattona.
Se pensarmi vecchia ostessa che calma gole e palati e dona libri, significa esser da casa di ricovero, allora io ho già la stanzetta prenotata.
Se sognare un funerale che dalle lacrime produca una orgia alcolica, è da girone dei lussuriosi, allora prenotatemi un posto al calduccio.
Ecco , o mi fermate o tacete. Oppure ridete, che è meglio.

mercoledì 21 gennaio 2009

Amarone

Amo il vino come amo gli uomini. E dentro il vino, capita di riuscire a ritrovare per una strana alchimia, che non decifro se non con una lenta deriva verso la follia, il sapore di uomini noti o anche appena assaggiati. Stasera con gli amici ho sorseggiato un Amarone di otto anni e poi un Primitivo di Manduria e un sorso di Schioppettino. Tre bicchieri in tutto. Tre uomini c'erano dentro quei vini. Io ne ho risentito il sapore. Il Primitivo di Manduria era un esperimento mal riuscito, profumato all'olfatto ma insapore al palato. Sapeva di fanga. Meglio sputarlo e passar oltre. Lo Schioppettino sapeva di geraneo ed era molto elegante al palato ma ha lasciato un ricordo in gola che se ne è andato velocemente. Passeggero, quindi.
L'Amarone, invece, aveva un colore così simile al granato, un olfatto che rimandava al cuoio e allo smalto, e un profumo in bocca così elegante e allo stesso tempo corposo che facevi fatica a staccartene. Come certi baci che vorresti non finissero in fretta, perché sono così vellutati da massaggiarti l'anima.

martedì 20 gennaio 2009

Buoni propositi

Dopo l'ennesima figurina da c. quotidiana e una lunga discussione serale su Ff sull'enogastronomia ( grazie, mi ha salvato dalla tv trash) sono andata a dormire. Pensavo di riposarmi e invece, inatteso e subdolo, è arrivato il mal di stomaco. Notte in bianco, con la compagnia della borsa dell'acqua calda per amica. E il risveglio è stato tragico, perché avrei dormito altre otto ore ma ho mille doveri da assolvere oggi, primo fra tutti le bollette da pagare e poi far visita alla genitrice, intrattenere alcuni rapporti di mera circostanza. E per radio non fanno che trasmettere l'ultimo singolo di T.Ferro che non si concilia mai con la mia necessità di una sferzata di entusiasmo. In questo periodo ci sono un sacco di doveri nella mia vita, che rischiano di mettere in secondo piano i miei piaceri. Anche quelli che mi regalo da sola, e così adesso , mentre faccio colazione, voglio solo che il 2009 sia l'anno del mio Piacere. Lo scrivo qui, perché rimanga scolpito in questo spazio. E mi ricordi l'unico impegno che prendo per quest'anno. Da questo preciso momento, l'unica scelta che muoverà i miei passi sarà il piacere. Sarà il discrimine tra il fare e il non fare. Può sembrar egoista, come concetto? Io non credo affatto.

lunedì 19 gennaio 2009

Possedere

Io che nulla pensavo di possedere, perché mai ho imparato a trattenere con la forza ciò che non vuol restare, ora mi ritrovo a passeggiare e dormire con un desiderio.
L'avevo messo alla porta, lui ha voluto rimanere.
Io ora possiedo qualcosa, un desiderio.
E' solo mio. Ed è l'unica cosa di cui, liberamente, posso esser gelosa. E lo posso nascondere tranquillamente, per salvarlo dalla vivisezione dei ma e dei perché di chi sente come fatica anche una semplice voglia.

domenica 18 gennaio 2009

La stella alpina

"Perché sei venuta a letto con me? ". Davide fissava Marta, in attesa di una risposta. Che tardava ad arrivare, troppo. E anche se si trovavano spalla a spalla, nel letto dove fino ad un quarto d'ora fa si erano divertiti, quel silenzio stava costruendo un muro di mattoni marroni per dividerli. Lui non capiva e chiedeva, lei non rispondeva.
Anzi, Marta pensò bene anche di girargli le spalle, ficcando la testa sotto il cuscino e mettendosi a guardar la porta della stanza. Senza rispondere.
Davide, stanco, fece altrettanto. Il sonno li avrebbe ammansiti tra poco, pensò, e domattina avrebbero visto tutto in maniera diversa. Non ci credeva ma voleva crederlo. Marta invece aveva la testa a centinaia di chilometri da quel letto sfatto. Dove? Mica lo sapeva Si tirò addosso le coperte. Aveva freddo e non aveva nessuna voglia di parlare e soprattutto di spiegare perché si ritrovava nel letto di uno che conosceva da poche ore e di cui in pratica sapeva solo nome, età, professione, indirizzo di casa. Lei sapeva che mentre baciava, toccava, sfiorava il corpo di Davide in realtà non pensava affatto a lui, ma a Samuele, che se ne era andato la settimana prima senza un motivo apparente: improrogabili impegni di lavoro. Samuele l'aveva chiamata il giorno prima per avvisarla della partenza, senza lasciarle il tempo manco di un saluto. E finora non si era fatto sentire. Non una telefonata, non una mail. Aveva lasciato nella cassetta della posta del suo palazzo soltanto una busta con all'interno una stella alpina, infilata in un sacchettino di cellophane. Ed un bigliettino. "Quando torno, parliamo".
E Marta aveva passato i giorni seguenti senza parole e lacrime. Tra amici ci si lascia con il sorriso, ci si cerca quando si può. Non si puntano i piedi. Ma c'era quella notte passata svegli a guardar vecchi film e a bere vino rosso, con il plaid condiviso e poi c'erano stati i sorrisi, l'addormentarsi abbracciati sul pavimento, mezzi ubriachi, e poi al mattino, invece dei saluti di rito, mentre Marta, che si era svegliata per prima, si faceva la doccia, Samuele era entrato nel bagno, si era spogliato e si era infilato nella vasca con lei. E avevano fatto l'amore in un modo lieve e delicato, che Marta ogni volta che ci pensava ancora aveva i brividi. Poi Samuele non aveva più detto nulla. Dopo pochi giorni era partito. E lei si era sentita di colpo sola e passava le notti a guardar vecchi film e a bere vino, avvolta nel plaid che non era più condiviso ma solitario. Non perché lei si sentisse abbandonata; no era perché lui non avrebbe condiviso niente con lei. Le risate, le letture, i film, la bottiglia di vino, le discussioni avvincenti su qualsiasi argomento. Era amore? No, era affetto. Marta aveva voglia di chiedere, ma se Samuele non c'era, il dialogo era un monologo assurdo. E lei parlava solo a sé stessa, ponendosi domande senza risposta perché mancava l'interlocutore. E con le domande, cresceva il fastidio per una assenza che pesava. Ad ogni doccia, ad ogni film visto avvolta nella coperta. E nel letto, di notte, quando la fantasia corre veloce prima del riposo, e risenti a volte nitide le sensazioni più piacevoli e forti. Era come se la presa delle sue mani fosse entrata sotto la pelle e fosse rimasta lì, mollando calore poco a poco. Qualcosa Marta doveva fare e la festa a casa di amici con un invito allargato a tutti i conoscenti possibili, le era sembrato il modo migliore di liberarsi dal pensiero di Samuele, dal suo profumo.
Per una sera non ci avrebbe pensato. E infatti fu l'anima della festa, ballò per ore con le amiche con una sana allegria da quindicenni. E poi arrivò Davide con i cocktail, le battute e gli apprezzamenti. E con la sbornia che avanzava, la distanza tra loro si era ridotta. Lei ballava senza pensieri e lui la cercava, la tirava a sé e Marta non aveva voglia di resistere. E si lasciò andare. Quando Davide la portò a casa e la spogliò e poi le accarezzò a lungo il corpo, Marta non c'era per davvero. Lei era di nuovo nel bagno, sotto la doccia, con Samuele. Chiuse gli occhi, fece uno strano sorriso e ricambiò il favore a Davide ma tutto quello che faceva, con la bocca e le mani, non lo faceva a lui, ma a Samuele.
Un gioco perverso di presenza ed assenza, un corpo che agisce scollegato da una mente che si alimenta di un desiderio che in realtà è altrove. Per questo alla domanda di Davide, Marta scelse di non rispondere. Sarebbe stato decisamente difficile dirgli che aveva fatto l'amore con lui solo per non dimenticare un altro uomo.
Si svegliò la mattina più serena, anche se il mal di testa le rendeva difficoltoso il passo. Si avviò in bagno e si spogliò, pronta a farsi una doccia. Aprì la tenda di plastica e rimase a bocca aperta. Nudo, intento ad insaponarsi le spalle, c'era Samuele. La faccia sbalordita di Marta rivelò i suoi pensieri imbarazzati ma anche le mille domande rimaste senza risposta. "Che ci fai qui?", le chiese Samuele.
"No, che ci fai tu qui _ ribatté Marta _ non eri via per lavoro? E che ci fai a casa di Davide?". "Siamo coinquilini, io abito qui _ le rispose Samuele, ridendo _ E sono tornato ieri sera. Ho visto che dormivate e non vi ho svegliato". Marta sentiva la pelle della faccia scottare, come in preda alle febbre e desiderò tanto di esser capace di sparire. Ma non era un super-eroe.
Invece aveva davanti l'uomo che desiderava e che aveva capito benissimo che la scorsa notte lei e Davide avevano fatto sesso. " Ti sei divertita?". Le parole di Samuele le echeggiarono in testa formando un eco, come se sotto la corteccia cranica non ci fosse più materia grigia, ma il vuoto. "Ti piace, Davide?". Samuele proseguiva nelle domande e Marta taceva ma sentiva che erano in arrivo le lacrime. Samuele le posò una mano sulla spalla. "Sì, ci siamo divertiti ma non ho fatto l'amore con lui, nella mia testa l'ho fatto con te", disse Marta con un filo di voce e vergognandosene. "E ti è piaciuto", le rispose Samuele accarezzandole i capelli. "Sì, tanto", replicò Marta oramai incapace di pensare prima di parlare.
Lui la attirò a sé dentro la vasca e la abbracciò. "Dobbiamo parlare, dopo". E tirò la tenda.

Moschettoni

Non hai sempre risposte da darti, consolatorie, hai solo la sensazione di aver sbagliato a prender le misure. Di aver osato troppo e di averci rimesso. Nel silenzio. Nell'assenza di rumore, senti l'errore. Senti tutto. Se sbagli lo fai sempre in prima persona, mai in terza.
Agisci da figlia del desiderio e ti ritrovi a passar per la figlioccia della tristezza.
Eviti arrembaggi egoisti, tu che mai vorresti esser vittima di atti di pirateria. O senti che hai parlato troppo ma in fondo non hai detto niente se non hai saputo spiegare che i legami hanno valore perché i nodi non li fai mai a caso. Fissi un moschettone nella tua roccia dura e dai a quel pezzo di ferro una solidità che non si spezzerà al primo peso. Stai bene nel vento, che ti alimenta il cervello, e ti va bene di farti scompigliare i capelli.
Perché senza nodi e vento alla fine non saresti quel che sei.
Dicono che il vento alimenti i folli e che fidarsi non è bene, ma che vita è degna di esser vissuta anche solo per un secondo , se non avessimo il coraggio di esser pazzi, camminando sul filo, senza protezioni.
La scelta è personale, non di altri. I moschettoni li fissi nella pietra e ti lanci, confidando nella loro tenuta. E finché non provi non puoi sapere, mai, se il gancio si stacca, il nodo si scioglie, la corda si affloscia. E quindi corri il rischio.

venerdì 16 gennaio 2009

giovedì 15 gennaio 2009

Il pianista

L'ho notato dalle finestre della locanda, mentre fumavo una sigaretta sotto la pioggia. Occhiali scuri, le mani che scivolavano sui tasti leggere, la testa che ondeggiava. La musica del locale non andava a tempo con le sue dita. Allora, sono rientrata nella locanda. Colpevole la mia solita curiosità, sono arrivata a pensar che fosse un pianista cieco.
Lui stava in una saletta vuota, a fianco del salone di ingresso a cui si accedeva girando a sinistra, una volta arrivati al bancone. Nel ristorante oramai c'eravano solo noi, gli ultimi irriducibili tra i commensali, e i due titolari. Voglia di andarsene, saltami addosso. Gli amici erano intenti a discutere con l'oste di alta qualità alcolica. Lui, il pianista, invece, se ne stava da solo, lontano anni luce dai nostri discorsi sui distillati di birra di Capovilla.
Il jazz usciva dalle casse dell'impianto audio, con una ottima qualità , ma lui al pianoforte suonava una musica tutta sua, scivolava con le dita sui tasti, poi abbassava la testa fino ad appoggiarci la lingua, di scatto sollevava la gamba sinistra con una smorfia del viso che testimoniava la tensione del suo corpo, l'impegno nell'esser tutt'uno con il piano, forte della sensazione di esser davvero l'autore, il creatore, della musica più bella mai suonata al mondo, in quel preciso istante. I capelli neri, il corpo imponente, le mani sottili.
Gli occhiali con le lenti scure, indossati nella penombra per impedire al mondo, e a me, di vedere i suoi occhi. Ma la bocca e il corpo parlavano comunque per lui. Era come se il pianoforte fosse una bella donna e lui la stesse assaggiando, suonando, toccando, assaporando, provocando, tastando, sentendo, in quel preciso istante, con una insolenza verso il mondo circostante che meritava un applauso a scena aperta. E invece io nella stanza vuota, intenta a veder quest'uomo far l'amore con il pianoforte, suonando una musica tutta sua , incurante del sottofondo di free jazz, ho dovuto applaudire solo con il cervello di fronte a tanta, sfrontata, sincera, libertà. Vergognandomi anche un pochino di aver sbirciato dall'ingresso quell'amplesso sonoro, profondo, vero.

mercoledì 14 gennaio 2009

Demoni cristiani

"Demoniiiiiiiiiiiiii cristianiiiiiiiiiii. Ti e pure Crassi, quel sgionfon!". La Pina urlava tutti i giorni alle 12.30 davanti alle finestre del palazzo comunale. L'ex presidente del Consiglio socialista, fuggito in pieno scandalo tangenti, era il Crassi nella sua strana parlata di donna padovana, arrabbiata.
Nel bianco Veneto scudocrociato, lei urlava contro i demoni cristiani della politica, deformando la faccia nello sforzo, tanto che nel momento topico pareva lei una indemoniata, appena uscita da un film di serie Z del genere splatter. Gonfiava le guance, gli occhi quasi le uscivano dalle orbite, la pelle rugosa si dilatava come un vecchio pesce palla. E urlava. Lo faceva perché era minacciata dallo sfratto incombente, che aveva già più volte dribblato, come una astuta faina, ma che prima o poi sarebbe arrivato nelle fattezze, tutt'altro che simpatiche, "da sgionfon" appunto, dell'ufficiale giudiziario. La Pina non capiva: lei abitava in una casaccia, piena di muffa e umidità, con pochi mobili raccattati in giro e tenuti sù con i chiodi nei punti giusti. Proprio la sua casa marcia volevano? Perché non quella di un altro? Valle a spiegare che la casa non era sua, che manco pagava l'affitto. "Son vecia, dove vado?" replicava a tutti con voce improvvisamente lamentosa.
Era tutto vero, la Pina era anziana: dimostrava tra i 70 e i 140 anni a seconda delle giornate. Era sola, nel senso che probabilmente nessun parente, prossimo o distante, aveva voglia di sopportarla e quindi fingevano di non conoscerla. Aveva anche una puntina di follia, perché solo una matta, tutti i giorni a mezzogiorno e mezzo, ci fosse il sole, la pioggia e pure la neve, arrivava in piazza trascinando il motorino spento, un vecchio Califfo blu, e si metteva sotto le finestre del sindaco per il quotidiano appuntamento con il "Demoniiiiiiiiiii cristianiiiiiiiiiii".
Urlava la stessa frase anche davanti alle telecamere della tv privata cittadina, senza paura. Anzi se la rideva, la Pina. Che la prendessero pure per matta, tanto, lei, non aveva nulla da perdere. Se non la sua casetta in cui prima dei nuovi proprietari avrebbero dovuto entrar sicuramente i disinfestatori della Municipalizzata. Perché pare avesse anche un pochino la fissa di raccattar roba qua e là, o sacchetti chiusi contenenti chissà quale sostanza classificabile come "scoassa".
Non si sa mai, una guerra può sempre riesplodere.
Ma lei era contenta, aveva la sua casetta, le sue cose, il giardinetto con le galline. E se la guerra arrivava, era pronta.
Negli ultimi tempi, già ammalata, arrivava davanti al Municipio con il motorino bardato a festa: un gigantesco fiocco rosso appeso al manubrio del Califfone blu. Sembrava girasse con un enorme regalo a due ruote. Il fiocco glielo avevano regalato alcuni ragazzi e lei lo aveva attaccato al suo amato Califfo. Che nessuno ha mai visto un giorno andar in moto.
Alla fine dopo quasi tre anni di performance, il sindaco si era convinto e le aveva assegnato una casetta nuova in un palazzone popolare alla periferia del paese. Era entrata come non abbiente nelle graduatorie.
35 metri quadri, senza giardino, al terzo piano. Pavimento in linoleum e finestre che davano sul palazzone di fronte. Dalle 14, solo ombra, manco un raggio di sole, entrava in casa dalle due uniche finestre. Spazio per le galline? Nessuno, visto che il giardino condominiale era occupato da grill e barbecue degli altri condomini, tutti arrivati prima di lei.
Di casa la Pina non è più uscita, per mesi e mesi. Era infelice, non sapeva dove andare uscita dal condominio, non conosceva quella periferia, e un pochino ne aveva paura. I vicini poi si tenevano evidentemente distanti da questa vecchietta strana. Il Califfo è rimasto per mesi parcheggiato nel giardino condominiale, con l'enorme fiocco rosso scolorito dalla pioggia.
Alla fine, qualcuno all'ufficio dei Servizi sociali si è ricordato di lei ed è andato a bussare al portone del suo piccolo, nuovo, appartamento. Nessuno da mesi la sentiva più urlare.
Lei era a letto, pareva che stesse dormendo. Ma c'è chi giura che in realtà se la rideva. Da sola.

domenica 11 gennaio 2009

Mattio

A me stava simpatico. Quando andavo al mercato con mia madre, lui c'era sempre. In un angolo della strada in mezzo ai banchi degli ambulanti, non mancava mai. Impossibile, non sentirlo. Lui cantava. Vestito di tutto punto, giacca e cravatta, pantaloni classici. Anche se l'abbigliamento era un pochino consunto, era ben vestito e pettinato come quei cantanti che vedevi nei documentari di Sanremo in bianco e nero.
Leccato, con la riga in parte, si dice dalla mie parti. Un foglio di giornale arrotolato oppure uno stecco di legno erano il suo microfono, tenuto stretto con forza nella mano chiusa a pugno. Lui cantava e basta, non chiedeva niente. Soldi sicuramente qualcuno glieli dava, forse nella speranza di farlo smettere. Perché, vi assicuro, l'intonazione non era granché. Io avevo capito che era uno dei tanti che chiedevano l'elemosina. Un pochino bizzarro certo, rispetto alla media di accattoni rannicchiati a testa bassa con accanto il cartello con scritto "Ho fame".
"El xe mato, ma almanco qualcossa el fa", diceva mia madre, sorridendogli quando gli passavamo davanti. L'ho rivisto anni dopo. Passavo in bus per via Pascoli e alla fermata a fianco della fontana del piazzale, l'ho visto. Era nudo dentro la fontana a farsi il bagno. Con tanto di bagnoschiuma. La schiuma, soffice come una gigantesca panna montata, aveva riempito tutta la vasca e lui ci sguazzava dentro, completamente nudo, ridendo come un bambino. Sembrava un principe nella Jacuzzi. Solo che la improvvisata Jacuzzi non era in una sontuosa villa ma a fianco di una strada frequentatissima del centro. In pochi minuti arrivò la polizia. Evidentemente qualcuno aveva segnalato che c'era un matto che si faceva il bagno in strada. Lui alla vista dei poliziotti cominciò a piangere, ad urlare, pregando che lo lasciassero lì. Arrivò anche l'ambulanza e se lo portarono via a fatica, tutto nudo. Provò anche a resistere ma erano cinque contro uno e alla fine dovette desistere. Lo sottoposero ad un Tso. Sigla che sta per trattamento sanitario obbligatorio. Ovvero sei così matto che ti ricoverano e ti imbottiscono di psicofarmaci al punto che sei talmente drogato che manco sai chi sei più. Lui, lo scoprii poi, si era dimenticato chi era già da tempo, da quando cantava al mercato canzoni struggenti d'amore anni Settanta. Mattio, così si chiamava o almeno lo chiamavano, era impazzito per amore. Questa è la leggenda: Mattio che si innamora a tal punto di una ragazza da reagire al suo No cantando in strada. Prima un'ora, poi due, poi dieci ore. Finché si dimentica che ha dei genitori, una casa, degli amici. Finché non dimentica chi è e si ritrova a vivere in strada, cantando 24 ore su 24. Cantava anche quando si faceva il bagno nella fontana di via Pascoli. Per la cronaca, la schiuma l'avevano messa la notte prima dei ragazzini: era stato il classico scherzo di adolescenti. Mattio alla mattina seguente, uscito dalla mensa dei Cappuccini aveva camminato fino a via Pascoli, aveva visto quella montagna di schiuma e ci si era tuffato dentro, trasformandosi in un re che si diletta con acqua e profumi. Cantava a squarciagola "La prima cosa bella che ho avuto dalla vita...". Pensava ancora a lei, alla sua Dulcinea, che gli aveva spaccato il cuore in mille pezzettini con il suo no. Racconta la storia che passa di bocca in bocca, finché non sai più chi l'ha raccontata per primo, è che dopo la notte in ospedale, Mattio abbia smesso definitivamente di cantare. Silenzioso, girava per la città elemosinando come tutti gli altri. La barba lunghissima, i vestiti sporchi, i capelli arruffati. L'occhio annebbiato da fiumi di alcol: beveva di tutto, bastava fosse alcolico. E quando stava male, e questo capitava poi tutti i giorni, urlava in un modo così straziante che capivi che stava buttando fuori così tutto il dolore che non riusciva più a cantare. Era così intrattabile che non lo accettavano più nei ricoveri notturni e alle mense dei poveri. Era pericoloso, dicevano. Mattio, era diventato il matto cattivo. La canzone era morta nel suo cervello. Lui ci provava ma usciva solo quell'urlo straziante. Poi all'improvviso è sparito. Dicono sia morto, ma io mica ci credo. Secondo me è solo andato ad urlare altrove.

sabato 10 gennaio 2009

Fallocrazia - edizione 2009

Quelli che

Se mi lasci ti uccido
Se non ci stai ti stupro
Se non stai zitta ti ammazzo
Ti ammazzo comunque
Se resti incinta non ti assumo
Firma sta carta, che se resti incinta ti licenzi volontariamente
Non ti faccio far carriera, anche se sei brava
Sei brava ma ti pago meno dei tuoi colleghi
Sei brava, lavori per otto, quindi perché cambiarti qualifica?
Abbiamo la stessa qualifica, ma io sono più motivato
Sei in gamba ma se ti fai una famiglia cambierà tutto
Non mi piacciono le donne in carriera
Sono cattolico osservante ma una notte di sesso con te me la faccio
Sono cattolico osservante ma l'amante ce l'hanno tutti, no?
Sono un cattolico osservante ma quello della prostituta è il lavoro più vecchio del mondo
Se mi bacia un gay lo prendo a sprangate, ma con i trans è una esperienza diversa
Prima del giuramento di Ippocrate viene la Fede, quindi niente pillola del giorno dopo
Prima del giuramento di Ippocrate viene la Fede, non pratico aborti. E' un omicidio
Hai un figlio e sei single? Allora sei facile
Facciamolo senza preservativo che sono allergico al lattice
Diventerò padre? Ma la mia carriera ne risentirà
Il figlio è tuo e te lo gestisci tu
Il figlio è mio e lo educo io
Mi tocco il pacco tutto il giorno ma te sei una vera puttana se ti tocchi il seno ogni 5 minuti
Ha denunciato di esser stata violentata? Ma se l'ha fatto entrare in casa allora lei ci stava
Ce l'ho lungo, le faccio godere tutte
Mi dici di no ma lo so che vuol dire sì
Sei grassa, dovresti dimagrire
Sono grasso? No, sono le maniglie dell'amore
Ti è piaciuto? La cosa è reciproca.
Mi vuoi bene? Idem
Hai ancora voglia? Ma allora sei ninfomane
Non hai voglia? Ma allora sei frigida
Non ti è piaciuto? Ma se hai fatto tutto quello che volevo io...
Hai mal di testa? secondo me sei depressa
Sei infelice? Sei depressa
Sei triste? Fai poco sesso e sei depressa per quello
Con te faccio l'amore, con lei è solo sesso
Mi tradisci? Sempre detto che eri una zoccola
Sono depresso, ma tu non sai cosa vuol dire lavorare
Non puoi capire quanti problemi ho io, mica sono te che penso solo a come abbinar maglietta e gonna
Mi hai sposato solo per i miei soldi
Ti regalo la vacanza, così poi te la rinfaccio fino al 2023
Sei una poveraccia, senza di me non avresti neanche un tetto sopra la testa
Ti ho sposato per la tua bontà
Sei troppo indipendente, mi fai paura
Se gli uomini oggi sono il sesso debole, è solo colpa di voi donne
Comunque cucina meglio mia madre

Avvertenze: questo non sta a significare che ho una pessima opinione degli uomini. Senza di loro, il mio mondo sarebbe privo di qualche sfolgorante colore.

venerdì 9 gennaio 2009

I gusti che cerchi

Il sapore non è lo stesso. Ma ci provi a cercare un sapore diverso che ti faccia dimenticare quello che volevi e che non fanno più. Vai in pasticceria e sai che non c'è. E allora ti lasci tentare da un gusto diverso, sperando che riproduca quell'equazione netta che va dal neurone all'ombelico, solleticando l'interno della coscia. Ma quel che assaggi, anche se si impegna ad arrivare diritto alle tue papille gustative, sa di polvere, che fatichi a respirare. Anche se è lì in vetrina da settimane ad aspettare il tuo cucchiaino, non riproduce l'effetto vellutato di un fondente che assaggi a sorpresa. E anche se sicuramente non gli mancheranno qualità, la tua bocca finisce con il desiderare non la polvere ma il velluto che scivola, accarezza il neurone, solletica l'ombelico, fa vibrare l'interno coscia. Il desiderio non è un surrogato, è voglia vera senza domani, calata nell'adesso. La necessità di un sapore che non fanno più.

Piombo fuso

Ci sono le maschere del passato, quelle che puoi far presto ad indossare per nascondere il masso di granito che ti pesa sul petto, e che devi poi sempre portarti appresso perché mica puoi spiegare che hai un masso di pietra sul petto e fatichi anche solo a camminarci assieme. E se ti chiedono il peso, non sai pesarlo, e se ti chiedono la consistenza, tu pensi sia granito ma poi lo tocchi e sembra piombo, e temi che con il tuo calore finisca con il fondertisi addosso, e diventi donna piombo e se vai in acqua sprofondi con lui e non riesci più a nuotare. Ci sono le maschere, ma si sono deformate e sulla tua faccia non ci stanno più bene e rischi che ti vedano comunque, che sei te, e il tuo macigno, a passeggio. E cerchi una leva che sollevi il peso e che lo tolga di torno, ma attorno non hai leve ma solo finzioni a cui assolvere e falsi sorrisi da regalare. E allora la maschera non ce l'hai, la leva nemmeno, manco hai un punto di appoggio e finisci a star a volto scoperto a guardarti la faccia, a cercarti la ruga, a sorriderci sopra sforzandoti di trovarci sempre il taglio positivo che non trasformi la tua bocca in un urlo e il tuo masso lo sollevi, ci respiri sopra, ci posi le mani e con il calore lo modelli come piombo fuso e cerchi di non attaccartici come mastice definitivo ma lo modelli ancora, come i giochi dei bambini, e ci fai un fiore che vuoi regalare, come un pegno di devozione, a qualcuno che non guardi al macigno, che non chieda la maschera, che si diverta dell'evento di un volto che sorride anche se da ridere non c'è niente perché mancano leve e pure appoggi. Ma senza piombo fuso addosso almeno si nuota. E nuotare è lieve, ci fai mille evoluzioni, non ci canti a bocca aperta ma almeno gorgheggi dentro. E lui dalla riva guarda e ride che capisce che sei felice, ora, adesso, senza pesi, con la sola voglia di essere quel che sei. E respiri...sempre che una mano non arrivi all'improvviso a tenerti sotto a forza, costringendoti a soffocare, a lottare per riemergere finché non arrivi per stanchezza non per mancanza di coraggio a sognare un piombo fuso che ti porti in fondo in fretta.

martedì 6 gennaio 2009

Cosa sarai

Talentuosa non sono di certo, anche se a 30 anni ho vinto un premio, a 24 ero già in possesso di un tesserino dell'Ordine dei giornalisti e a 17 muovevo i primi passi nel mondo che sarebbe diventato la mia passione. Il talento è altro, è genio, intuizione, ironia costante. E io alla fine ottengo i migliori risultati ironizzando solo su di me. Fatacarabina, procione, lupa dagli occhi gialli, l'angolo dell'ormone. Alla fine sempre io sono. Ho passato anni a volermi diversa, a non accettar le mie forme, ed oggi mi ritrovo ad amarmi e mettermi in gioco, come una trapezista pronta al volo senza rete.
Ho paura, certamente, ma non posso farne a meno. Annuso l'attrazione, seguo l'istinto, mi lancio in nuove esperienze. Sbatto il muso e solo io posso dire quante volte è successo. E quanto posso soffrirci, come un cane abbandonato in autostrada.
Principio di fondo, se ci credi non devi mai pentirti. Certi salti mica li fai a caso, per chiunque. Lo faccio solo quando c'è il talento, vero. In primis quello di vivere, in seconda battuta l'intelligenza e l'ironia. Solo dopo valuto l'altrui capacità di darsi ad una come me che sembra eccessiva, un oracolo vaticinante, una cioccoblocco dipendente, una drogata di ormoni, una fanatica del sesso. Sì, posso sembrar tutto questo, specie se qualcuno mi piace. Ma di fondo resto una non talentuosa che insegue il talento. Una tal dei tali che è priva di sex appeal e che insegue la sensualità. O semplicemente una donna Enel, come dice di me un amico. Non è facile capirmi, ma un anno fa ero peggio. Mi credevo io l'arrivata.
Oggi, che non ho certezze in mano, che sono precaria dentro, che mi metto in discussione ogni giorno ed ogni giorno mi chiedo se mi amo e se sto bene a sufficienza per sorridere al mattino, ho una maggiore consapevolezza di me.
Ho una figlioccia, Melissa Rosmery, ha nove anni. Vive in Perù, un posto non certo facile se nasci femmina. Mi ha mandato anche quest'anno la sua foto, è bella e mi saluta con la mano, con addosso la divisa scolastica. Non sono una migliore di altri perché da 5 anni sovvenziono da lontano i suoi studi, le sue scarpe, i suoi pasti. Le voglio bene, anche se non è figlia mia. E neanche colmo un desiderio di maternità inespresso, perché partorire è un'altra cosa.
Ma in questi giorni che a Gaza, nei bombardamenti e nella guerra per un pezzo di terra, i primi a morire sono i bambini, io penso anche a lei. Non so chi lo diceva, ma concordo. I grandi possono esser anche soli, ma i bambini sono di tutti.
Cerco di capire che donna sarà Melissa , se sarà libera di amare, di scegliere cosa diventare, quale passione inseguire, quale uomo accogliere nel suo letto. O se invece vivrà infelice, nascondendo i suoi istinti, temendo di esser violata da mani che non desidera, spinta a far scelte che non vuole. Per necessità, magari.
Ecco, io sarò imperfetta, ma le mie chance le ho avute e le ho sotto gli occhi tutti i giorni. E decido io cosa fare di me. E Melissa ha lo stesso mio diritto di scegliere la perfezione o l'imperfezione.
Ma se non siamo attenti a loro, ai nostri bambini, a Gaza in Palestina come a Trujllo in Perù, il mondo sarà un posto decisamente brutto dove vivere.

sabato 3 gennaio 2009

L'hotel degli onti

Prendeva trecentomila lire al mese e ne arrivava ad ospitare anche venti per volta. Che facevano sei milioni al mese. Un angolo dove posare il tappeto per pregare veniva diecimila lire al giorno. Tanto spazio ce n'era, la sua casa era grande. Su due piani, con grandi finestre. Riscaldamento? No, che si arrangiassero quei quattro "onti". Per quei soldi, all'hotel dei diseredati, mica c'era spazio anche per un degno riscaldamento. I materassi li metteva a disposizione lui, venti o di più se c'era richiesta, gettati direttamente a terra senza troppi problemi. Le preghiere erano permesse solo nella sala al pianterreno e ogni problema andava risolto con il custode. Per i bagni, si faceva a turno. Chi prima arrivava, era contento. Unica regola, alle 7 di mattina, tutti fuori. Anche se nevicava, anche se un lavoro non lo avevi o eri in preda alla febbre e alla diarrea, entro le sette dovevi esser fuori, con il tuo sacchetto pieno di stracci. "Nde a lavorar, onti", era il richiamo. Ogni mattina via Wagner ospitava così il lento pellegrinaggio dei clandestini che lasciavano il loro hotel. Marocchini, albanesi, romeni, tanti nordafricani. Quelli che erano di religione islamica facevano in tempo a far la prima preghiera, poi si arrangiavano sul posto di lavoro o per strada, visto che dietro avevano tutto, anche il loro tappetino. Nulla si poteva lasciare nella casa, e quando rientravi la sera, rigorosamente dopo il tramonto per non dare nell'occhio - questa era una delle altre regole dell'hotel - ti cercavi il primo materasso libero, senza chiedere di tornare al posto dove avevi dormito la sera prima. Un martedì nel tardo pomeriggio il piccolo corteo di clandestini arrivò all'inizio della strada e trovò le luci delle sirene della polizia. E il custode, un ex pugile in pensione, zitto e stralunato fermo davanti al cancello. Un poliziotto di spalle gli parlava, con un tono della voce alto. Urlava quasi. Il vecchio pugile, Dante, stava zitto ma con gli occhi cercava di far segno al gruppetto che sopraggiungeva di andarsene, sparire. Erano bastate le luci delle volanti terrestri a metter nel panico i clandestini, che girarono subito i tacchi e se ne tornarono in strada, a passo veloce, per non farsi notare. Dante si rilassò e cominciò a ripetere al poliziotto con voce sommessa che lui era solo il custode della casa, che quella gente non la conosceva, e non sapeva quanto pagavano. Maria Ponchioni, che abitava in una casetta bassa davanti alla villa, ascoltava, con le braccia appoggiate al cancello della sua casa, e scuoteva la testa. "Lo sa quanti soldi prende il padrone, lo sa bene", mi disse quando le arrivai accanto. "Quanto?", le chiesi. "A mi no so, i dise trecentomila lire , dottoressa. Al mese. I xe schei sa e li ciama sempre onti". Erano tanti soldi, sei milioni almeno al mese. Per dar da dormire abusivamente a clandestini. Un reato. Ma io volevo vedere in faccia chi era questo proprietario così prodigo nell'assistenzialismo, a caro prezzo. E così aspettai che la retata finisse, che le luci delle sirene si spegnessero e che Dante se ne andasse. Lo seguii fino al bar fuori della strada, aperto 24 ore su 24. Si accomodò al banco, bianco in volto e chiese un bicchiere di vino bianco. "L'ombra gliela offro io", dissi, arrivandogli alle spalle. "Dottoressa cossa a vol ancora...", fu la risposta dell'ex pugile. Gli dissi cosa volevo: il nome e l'indirizzo. E dopo la prima "ombra", pagai tutta la bottiglia di prosecco che finì a fianco di Dante. Il sopracciglio con la cicatrice, forse un ricordo di vecchie botte, si alzò. Dante sorrideva. Gli piaceva bere, avevo colto nel segno e il regalo era ben gradito. Mi disse il nome quando era arrivato a metà della bottiglia, dopo aver raccontato che lui non c'entrava, era solo un custode. Prendeva 100 mila lire al mese e a lui bastavano. Me ne andai contenta, salii in macchina e presi la strada del Terraglio, direzione Preganziol. Arrivai all'indirizzo indicato, c'era un'altra villa, ancora più grande. Chiusa. Al campanello non rispondeva nessuno. Accanto c'era un albergo con una piccola trattoria. Entrai, non c'era nessuno al bancone. Urlai il nome del titolare. Arrivò dopo 5 minuti, era spuntato da una tenda blu di velluto pesante e si stava sistemando la patta dei pantaloni. Prima i convenevoli di rito, il suo sguardo che finisce sulla mia scollatura, la sua risata e la battuta. "Finalmente una bella signora, in questo posto di uomini e onti". Sorrisi. Poi partì la domanda . "E' sua la casa di via Wagner, vero?". Vincenzino, questo era il suo nome, smise di ridere. "Sì, perché. La vuole comperare? ". No, gli risposi, pronta, volevo vedere le ricevute dell'hotel. "Quali ricevute, quale hotel, Lì c'è casa mia", ribatté infastidito Vincenzino. Gli spiegai della retata, della casa sotto sequestro, dei 25 materassi trovati e dei racconti del vicinato. "Lei guadagna sulla pelle di poveri disgraziati. Sei milioni al mese. Quindi, cacci fuori le ricevute". Vincenzino posò il bicchiere d'acqua che stava bevendo e passò dall'altra parte del bancone, con passo deciso, e urlandomi che mi voleva fuori dal suo locale in un secondo. Altrimenti, chiamava la polizia. Lo osservai meglio: capelli neri con evidenti tracce di forfora, due denti d'oro, tarchiato e basso. Una lunga catena d'oro che scendeva sul petto, visibile dalla camicia aperta. La collana sosteneva un enorme crocefisso d'oro e madreperla. Nella tasca dei pantaloni, c'era qualcosa. Forse un coltello a serramanico. Feci finta di non notarlo, ma feci un passo indietro e mi ricordai, che come al solito avevo lasciato la pistola in ufficio. "Per sua sfortuna, Vincenzino, la polizia sono io", ribattei pronta, mostrandogli il distintivo che tenevo sulla tasca della camicia, sotto la giacca. Lui si fermò, evidentemente sorpreso, e tornò a sorridermi. E mi spiegò che aveva cominciato per dar una mano a quei poveri ragazzi, che lui aveva origini libiche e sapeva cosa era la fame. Ma che la casa era grande e quei poveri ragazzi dovevano in qualche modo concorrere alle spese del riscaldamento. E poi lui era buono, ogni mattina c'era caffè e latte per tutti e le brioches comperate al supermercato, quelle nel sacchetto di cellophane. E Dante, il custode, teneva pulito tutto. C'era persino sempre lo shampoo. Balle, un fiume di balle, raccontate da Vincenzino, per evitare guai.
Chiamò anche suo padre, don Mario, che arrivò tutto vestito di nero, con un bastone da passeggio. Vecchissimo, aveva la camminata di un ragazzino e l'occhio furbetto. "Piacere, don Mario. Mago per diletto". Si presentò così e io scoppiai a ridergli in faccia. Era lui il mago di cui mi aveva parlato Dante, quello che faceva paura anche agli arabi perché rischiavi una fattura seduta stante , se non facevi quello che voleva lui. "Bella signora, siamo brava gente", mi ripeteva Vincenzino, oramai spavaldo perché erano in due contro una donna. Senza pistola, mi dissi io, ma loro non lo sapevano. "Fuori ricevute e i soldi", ripetei serissima e per confermare che non scherzavo, superai don Mario, dribblai il braccio teso di Vincenzino e mi diressi alla cassa dietro al bancone. Dove c'erano dei libri contabili, avevo visto poco prima. Mi misi a sfogliarne uno, poi un secondo. Trovai l'elenco delle visite all'hotel dei diseredati, evidentemente Vincenzino prima di andarsene al bagno, stava sistemando i conti del giorno. C'erano 5 milioni e 500 mila lire in una busta, la scritta con la cifra forse era quella di Dante tanto la calligrafia era stentata. C'era l'elenco degli "onti" del giorno, venti esatti. I soldi erano meno di quanto previsto, forse qualcuno non aveva pagato. Mentre guardavo, Vincenzino avanzava lentamente verso di me, chiedendomi di lasciar perdere o sarebbero stati guai seri. Che lui aveva amici importanti ed io non ero nessuno, ero solo una commissaria arrivata ieri con decorrenza "ancuo", ripeté più volte. Lo squillo del telefonino ci colse entrambi impreparati. Era il mio e mi precipitai a rispondere . Era Otello, il capo pattuglia. Io neanche aspettai finisse di dirmi ciao: "Allora ispettore, siete qui fuori? Aspettate da tanto? Ah, non vedeva la mia auto. Ok, aspettate il mio segnale". Otello non era scemo e aveva capito che era una richiesta di aiuto. "Avete fatto il controllo al terminale? Non risulta? Impossibile, si chiama locanda Antico Grappolo, non all'Antico Grappolo. Dai, ragazzi, è tardi per tutti, eh....sveglia!". L'indicazione l'aveva avuta, massimo in 5 minuti le volanti sarebbero arrivate. Continuai a far finta di parlare al telefono anche se Otello aveva messo già giù. Presi il librone sotto braccio e la busta con i soldi e mi diressi alla porta, scansando un Vincenzino che si era accoccolato per lo spavento su una sedia. Don Mario alzò il bastone in aria, maledicendomi, quasi volesse colpirmi. Io mi diressi senza guardarmi alle spalle verso la macchina e accesi il motore. Buttai il telefonino sul sedile del passeggero e misi in moto, partendo a tutta velocità, inseguita dalle bestemmie di padre e figlio. Imboccai il Terraglio, direzione stazione e incrociai l'auto di Otello che a tutta velocità si dirigeva verso la locanda. Lo chiamai al cellulare. "Sono padre e figlio, Vincenzino e don Mario Capatone. Finisci tu il lavoro che io ho da fare". Tornai al bar vicino a via Wagner e trovai Dante, oramai ubriaco, seduto su una sedia. Lo costrinsi a seguirmi e andai in stazione. Chi non ha da dormire finisce qui, specie da dicembre quando il Comune ha ottenuto che la sala d'aspetto sia aperta di notte per i senza tetto. Dante mi seguiva , con la faccia bassa. Mi misi in mezzo alla sala d'attesa, era piena di uomini e ragazzi, e cominciai a scandire i vari nomi che avevo trovato sull'elenco di Vincenzino. All'inizio nessuno mi rispondeva, poi un ragazzo, Ahmed, quando pronunciai il suo nome mi rispose con un cenno. Andai da lui e gli misi in mano trecentomila lire prese dalla busta dei soldi. Andò avanti così per due ore. Poi, a notte fonda, portai a casa Dante. Oramai aveva smaltito la sbornia. "Ha fatto bene dottoressa a ridargli i soldi, sono bravi fioi in fondo", mi disse salutandomi con la mano. Non gli risposi niente, ripresi a guidare fino in Questura. Aveva collaborato, ma una denuncia se la sarebbe presa comunque. Nel corridoio mi aspettavano, seduti come due bambini in castigo, Vincenzino e don Mario. Mi guardarono con odio. Passai oltre, salutandoli sorridendo e facendo ciao ciao con la mano. "Buonanotte, onti".

Zaher

«Tanto ho navigato/ notte e giorno/ sulla barca del tuo amore/ che riuscirò alla fine ad amarti/o morirò annegato ».
Sono versi dolci questi, scritti da un ragazzo afghano.
Zaher Rezai, è morto prima di Natale schiacciato dalle ruote del tir usato per entrare in Italia dopo lo sbarco. Scriveva poesie, Zaher. Ed era arrivato a Venezia da clandestino, poi si era aggrappato ad un tir per sfuggire ai controlli della polizia di frontiera. Il suo corpo attende ancora una degna sepoltura in una cella frigorifera del cimitero di Mestre.
Di lui hanno parlato i giornali e le associazioni che si occupano dei migranti, denunciando le difficilissime storie di chi tenta di entrare nel nostro paese, fuggendo da paesi che sono spesso teatro di guerre continue.
http://www.meltingpot.org/articolo13725.html
Per riportare il corpo di Zaher in patria, il Comune di Venezia ha lanciato un appello a tutti i cittadini per contribuire con una colletta. Chi volesse aderire si può rivolgere al Comune, Direzione politiche sociali, partecipative e dell’accoglienza. L'assessorato ha raccontato la storia di questo ragazzo, lanciando anche un appello alla politica.

http://www.comune.venezia.it/flex/cm/pages/ServeBLOB.php/L/IT/IDPagina/2306
Ecco io lo dico qui, dovremmo dedicare una via di Mestre a questo ragazzo affinché la sua storia non venga dimenticata.

venerdì 2 gennaio 2009

Scappa dalla fastidiosa


Oggi vorrei fare una cosa sola. Niente di pazzesco, una cosa normale, sana. Di quelle che ti lasciano solo sorrisi. Ma visto che non posso manco provarci a farla, per mille motivi, primo fra tutti l'impressione di apparir una pazza e non una che la vita se la gode, sono qua oggi a convivere con la condizione della fastidiosa.
Che per una che è già una valente rompiscatole, è una condizione assolutamente deleteria. La fastidiosa modifica assolutamente il modo con cui guarda al mondo che le sta attorno. Se sei fastidiosa, dovresti girare con sopra la testa una sirena rossa che segnala al mondo che è in pericolo. Perché trovi un motivo qualunque per lamentarti e non apprezzare niente, in primis te stessa. Finisci con il far l'elenco dei tuoi difetti e quando hai finito con te, arrivando alla considerazione finale e scontata che sei un cesso, passi ai difetti degli amici e poi a quelli di chi ti piace e neanche lo sa. E se sei anche impegnata in una giornata di lavoro, sta sicura che lo trovi un povero disgraziato di collega che inciampa, senza accorgersene, nella tua incazzatura cosmica. Aspetti, per spolpartelo a piacere.
Insomma, tremo alla sola idea di dover passare una intera giornata con me.

Ps: vado a comperare una sirena rossa, da metter in testa a mò di cappellino, che alla fine dentro resto una buona, una che ama vivere e godere, mica una stronza fastidiosa come posso apparire oggi.

Pulizie di inizio anno

Esiste un ctrl alt canc per le emozioni? Domanda stupida? No, visto che sto facendo le pulizie di inizio anno. Ci vorrebbe un sistema di azzeramento, per far prima. Che qua con queste pulizie si finisce col far l'alba e si è ancora a metà del lavoro. Ho usato lo smacchiatore per gli errori, ho sbiancato la coscienza con la candeggina, e ho infilato il desiderio in lavatrice. Una bella centrifuga, così si instupidisce e non trova più la strada per arrivare dove non è bene arrivi. Domani lo batto come un tappeto steso al sole. All'inizio penserà ad un gioco. Poi capirà il messaggio e si farà piccolo piccolo. Sempre che la neve si sciolga e lasci posto al sole. Per la passionalità, userò il viakal , così elimino tutte le impurità in un colpo solo, e la rendo mansueta una volta per tutte. Poi ficco anche lei in lavatrice a 90 gradi. Con tutti i giri che gli farò far stanotte, ne uscirà rincretinita al punto di non saper manco dire il suo nome. E imparerà la lezione. Lo smacchiatore sugli errori ha funzionato poco, devo ammetterlo: adesso li ho immersi nel bicarbonato. Se non basta, passo alla calce viva.

giovedì 1 gennaio 2009

Vibrazioni positive

Non ricordo tutto, ma la mia notte di Capodanno l'ho trascorsa con sedici amici, davanti ad un caminetto, tra buon cibo, ottimo vino, una bella selezione di superalcolici, tante risate ed una lista infinita di canzoni.
Alla fine, ho mangiato poco, riso tanto, bevuto ( non so se sia equo dire il giusto) e ballato, ballato, ballato. Non ho fatto altro che ballare fino alle 5.30 di questa mattina. Poi sono crollata, felice, sul tappeto, abbracciata alla mia migliore amica e tra amici sonnacchiosi come gatti. Ridere e ballare, non poteva esserci miglior inizio.

Ah, dimenticavo Buon Anno!
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