Fatacarabina

Fatacarabina

domenica 30 novembre 2008

Per favore...no!

Mi tocca ridirlo e lo faccio qui, stavolta. Vai a bere un caffè e ti senti dire che sei una "bella...". Va bene, sorridi come se niente fosse. Poi te ne torni alle tue cose e ci pensi.
Ma io mica ce l'ho quella cosa proprio lì, che a pensarci mi viene pure paura di aver preso qualche strana malattia.
Ci resti e ti dici: "Sarà strana". Ma strana non lo è, semmai è assolutamente capricciosa. E tu pensi, visto che è tua, che è pure carina. Le vuoi bene, insomma. E darle del tubero proprio non ti va.

Insomma uomini, fatemi una cortesia grande: la mia non chiamatela "Patata".


E magari rileggetevi questo:
“Vagina.” Ecco, l’ho detto. “Vagina.” L’ho ripetuto. Sono tre anni che pronuncio questa parola. L’ho detta in teatri, università, salotti, caffè, cene mondane, programmi radiofonici in tutto il paese. La direi in televisione se qualcuno me lo permettesse. La pronuncio centoventotto volte ogni sera quando rappresento il mio spettacolo, I monologhi della vagina, che s basa su interviste a un gruppo eterogeneo di più di duecento donne. L’argomento è la vagina. La pronuncio nel sonno. La dico perché non è previsto che la dica. La dico perché è una parola invisibile - una parola che suscita ansia, imbarazzo, disprezzo e disgusto.
La dico perché credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti. La dico perché un giorno o l’altro vorrei sentirmi a mio agio pronunciandola, e non vergognarmi o sentirmi in colpa.

— Eve Esler - I monologhi della vagina

Punti cardinali

Il mio Nord è casa mia, lo è sempre stato. E' il mio rifugio, il posto dove adoro stare, anche da sola, perché so che qui sto bene. Ho tutto quello che mi serve, per il mio benessere personale ( a parte il cane, di cui ho già detto...). Potrebbe esser collocato in una qualsiasi regione geografica, in realtà. Perché ci sono un sacco di posti dove potrei vivere.
Il mio Sud sono gli amici, quelli più sinceri, che sanno da uno sguardo intuire quel che io spesso non dico. Anche se non sembra, sono una persona così riservata che spesso per capire le mie intenzioni vado sottoposta ad un terzo grado...E loro lo fanno, e io lascio fare, perché capisco il loro bisogno di starmi vicini davvero e ne ho bisogno pure io.
E' bello averne di vecchi e fidati e di nuovi, inaspettati e carichi di voglia di conoscere e fare cose assieme. Il fare, assieme ad altri, è sempre stata una delle qualità che richiedo in una amicizia. L'amore dove lo metto? A Nord di solito, ma talvolta finisce a Sud...
Da Est ad Ovest invece ci sono gli eventi della vita, quelli fortuiti o inattesi come quelli programmati. E pure i viaggi, che sono un'altra delle mie passioni. Tra una decina di giorni sarò a Praga, nel frattempo organizzo un viaggio a febbraio in Colombia. Viaggiare per me è necessario. Ho bisogno di vedere, toccare, annusare, assaporare e i posti lontani e diversi da quello in cui vivo hanno contribuito, sempre, ad eliminare quintali di stress e liberare la mente.
Perché scrivo di punti cardinali? Perché credo che ci sia una geografia dei sentimenti che fa in modo che la nostra bussola personale non impazzisca, il più delle volte. Che ci fa evitare le acque pericolose, quelle in cui non sai navigare. O che ci permette di avventurarci in quelle acque sconosciute, se lo vogliamo. Sapendo dove stanno il Nord e il Sud, gli unici porti davvero sicuri.

sabato 29 novembre 2008

Libera l'amante

amànte [a'mante]
p.pres., agg., s.m. e f.
1 agg
che ama
2 sm
chi è legato da amore, spesso illecito, a un'altra persona

Leggo sul dizionario la parola amante, una parola che io adoro. Il mio uomo è il mio amante, colui che mi ama. Non potrei definirlo altrimenti. Fidanzato o marito non hanno lo stesso potere inebriante della parola amante.
Ma leggo e ci resto male, perchè oltre all'uso come aggettivo (che ama), c'è quel sostantivo, che indica _ leggo _ un amore, spesso illecito. E ci resto male perché per me nulla è meno illecito dell'amore. Nessuno, manco un dizionario, avrebbe il diritto di definire illecito l'amore tra due persone e non dovremmo soffermarci allo stato civile per giudicare. Ci penso e mi sento evidentemente inadeguata. Come si fa a condannare ad un concetto negativo una parola tanto bella?

Mica lo sapevo...



grazie mille a
http://webgarden.bloglist.it/wow/wow-4/

giovedì 27 novembre 2008

Collezionista di voglie

Oggi m'è scappato un pensiero.
Ero a lavorare
Era presto, faceva freddo.
Non avevo voglia di far
quel che dovevo fare.
Lavorare è questo.
Ti tocca fare anche se non ne hai voglia.
E un pensiero mi è scappato, regalandomi una nuova voglia.
Sono una collezionista di voglie.
Alcune restano tali, su altre lavoro
per realizzarle.
Ma è bello soprattutto, averle, le voglie.
Perché sai che il cervello frulla, che la fantasia è in azione
e anche se devi far per forza, puoi sempre pensar di far altro.
E tutto diventa più lieve.

mercoledì 26 novembre 2008

Ho svolto il tema

In risposta a questo
http://www.laccalappiacani.it/2008/temi-svolti/
Ecco il mio tema su “sveglierò tutti gli amanti, parlerò per ore ed ore”:
commentare il brano della celebre canzone di R. Cocciante mettendosi nei panni di un amante svegliato.

L'AMANTE SVEGLIATO

Ahhhhhhhhhhh! Chi è questo che urla a quest'ora di notte? E suona pure al citofono...Chi saresti tu? Cocciante Riccardo? Che vuoi? Svegliare tutti gli amanti e parlare per ore e ore? E proprio al mio citofono vieni a suonare? E come sapevi che stasera ho un uomo in casa, che è di là che dorme della grossa, sto scemo. Sì, abbiamo fatto l'amore! Ma a te che ti frega, scusa? Ahhhh, siamo amanti e tu ci hai svegliato. Ben fatto, ma qua la sveglia sono solo io. E vuoi parlarmi di Margherita, perchè lei vuole l'amore.
Ok, ma scusami, Riccardo, e io che c'entro? Mi hai svegliato in piena notte, urlando come un gatto evirato...Sì, questa lunga notte è nera più del nero, ma io stavo dormendo, lo capisci, accoccolata addosso ad un uomo che mi piace. No, non si chiama Riccardo e no, non mi chiamo Margherita. Sono Marta, e mi hai svegliato, ti dicevo, mentre me ne stavo accoccolata a lui. Che continua a dormire ( ma quanto dorme questo e non sente il casino che fa questo nano?). Sì anche io vorrei che al risveglio non mi possa più scordare, Riccardo.
Ma se continui ad urlare così, finisce che pensa che sono io la matta, non tu, e mi molla. E invece vorrei che domani si alzasse, preparasse il caffè e se ne andasse senza disturbare e poi la sera mi chiamasse.
Senti, Riccardo, mica solo tu pensi all'amore. Pure io c'ho le mie storie e tu vorresti invece che scendessi a correre con te per le strade e che ci mettessimo a ballare. Ma io non ho voglia, sono in sottoveste. E lui è di là, caldo e addormentato. Io , invece, oramai sono sveglia. E quasi, quasi vado di là e lo sveglio, così lo rifacciamo, l'amore. Che tu canti e basta e io invece qua al freddo mi è tornata la voglia, almeno mi riscaldo. Sì, anche io come Margherita, lo faccio una notte intera. Che ti credi, che solo lei sia buona, bella, dolce, vera. Che solo Margherita ama? Ma guardati in giro! No ti prego non intendevo dire che devi andare a suonare ad altri citofoni. Stai qua, oramai mi hai svegliato nano. Costruirle una culla? Ma che sei pedofilo! No, non lo faccio e poi è notte fonda, sono in sottoveste, ho freddo e ho voglia di andare a prendermi un pochino di vero amore da quello di là...che continua a dormire.
Ma che sonno pesante ha? Non sente come urlo a questo citofono?
Margherita, lo so, Riccardo, non può farti male. Ma se invece di star qui ad urlare al mio citofono che è tua, perché non vai sotto casa sua a dirglielo? Le parli, la baci, magari lei è che aspetta solo te ( povera stella) e così la smettiamo...
Riccardo? ... No, non mi chiamo Margherita, sono Marta. Sì hai svegliato una amante. E sei contento? Sì?Ah, lei sta dormendo e tu non puoi riposare? Sai come si dice, canta che ti passa e tu l'hai preso alla lettera, vero?
Non puoi star fermo con le mani nelle mani? Beh, ti arrangi. Io stasera ho già dato... Sì il sole domattina splenderà, anzi se stai giù lo vedi arrivare tra un paio d'ore. Resto con te? No, guarda ho da fare. Tu canta, io adesso me ne torno a letto. Perchè l'amore mica si canta solo, si fa anche. Meglio spesso, sì.
Beh comunque vallo a dire a Margherita...Ecco una bella idea, costruisci un silenzio che nessuno ha mai sentito. Così è la volta che me ne torno in pace da quell'altro che se la dorme.
Margherita è tua? E chi te la porta via. E poi ti sbagli. Se è la Margherita che conosco io ... quella della via in fondo alla strada, beh la mattina si fa la barba e va a lavorare in carpenteria.
Ok, è la tua pazzia...Ma è un uomo, mettitela via!

La vasca

La vasca è uno dei luoghi perfetti per me.
Quando ho comperato casa, pensavo di installarci la doccia, per comodità. Per guadagnare spazio. Per fortuna non ho commesso quel terribile errore. Niente è comodo e accoccolante quanto la vasca. Sei stanco, sei triste?Tuffati nella vasca. Hai voglia di far l'amore in un posto diverso? Fallo nella vasca. Scoprire l'altro con l'acqua di mezzo è appassionante, oltre che divertente. Ti serve un posto dove pensare? Dove, se non in vasca, magari con due candele e un olio profumato. E dove ritrovi il senso del tuo corpo, che magari è tutto il giorno che corri da una parte all'altra della città e manco ti rendi più conto di averlo un corpo?Nella vasca. Dentro l'acqua calda ritrovi il dialogo con le tue gambe, il tuo pube, le braccia, il seno.
Una volta ci ho anche dormito abbracciata, alla mia vasca, ma quella è tutta un'altra storia.
E per fortuna solo pochi la conoscono e possono raccontarla.

T'amo

"Quante volte hai detto ti amo nella tua vita?" Me lo ha chiesto stasera un amico, mentre si tirava tardi con la combriccola al bar dei nostri comuni amici. "Due, per ora; il resto erano un ti voglio bene", ho risposto. E lui, tutto serio, mi guarda e dice. "Brava, te , che lo hai detto. Io non l'ho detto mai. Non sono abituato".
Ecco, io a volte gli uomini, che adoro e spesso sono tra i miei migliori amici, non li capisco. L'amico in questione mi ha spiegato che si può amare senza per questo mai dirlo, ma che basta comportarsi in modo tale che la donna lo capisca.
Ecco mi chiedo, ma dove cavolo è situato il problema che impedisce a taluni uomini, molti ma non tutti, di esternare i loro sentimenti con un bel " ti amo", evitando di costringere la loro bella di turno a scervellarsi per interpretare atteggiamenti, parole non dette o peggio semplici mugugni o rumori gutturali.
Continuo a pensare che l'uomo non diventa di colpo scemo se dice che ama. Anzi, ci guadagna.
O no?

martedì 25 novembre 2008

Procione



Se catturato in età giovane, l'orsetto lavatore può essere addomesticato facilmente. Stabilisce ottimi contatti con gli altri animali con cui viene a contatto, purché lo lascino tranquillo, al contrario non esita a battersi.


Oggi mi sento un procione, che vaga senza trovare nulla che attiri la sua attenzione. Un procione che sta meglio sull'albero a guardar il mondo dall'alto. Sto meglio qui, sul ramo, così il mondo che è sotto di me non può farmi niente, manco addomesticarmi che non c'ho voglia di esserlo. Non ho voglia di esser buona, conciliante, servizievole. Preferirei oggi uno scontro selvaggio, decisamente più sano di una resa...

domenica 23 novembre 2008

Pippi e Francesco

I piedi che oscillavano, come un vecchio e stanco pendolo. Di Davide, Marta aveva come ricordo quell'immagine. I suoi piedi , che oscillavano, lentamente dall'albero in fondo alla campagna.
Erano stati compagni di lavoro in una azienda agricola. Raccoglievano, ogni estate, pomodori nell'azienda di un conoscente. Per Marta era l'occasione per guadagnare qualche soldo in più. Davide, invece, non aveva altra possibilità: da ex tossicodipendente, faticava a trovare lavoro e quell'occupazione nella fattoria di Gigi era stata la sua unica occasione di guadagnarsi da vivere.
Dopo aver passato una giornata a raccogliere pomodori, con la schiena che faceva un male boia, Davide ogni sera tornava dai vecchi amici. Al bar in piazza. Un bianco oppure una birra e poi la compagnia andava nella stradina dietro l'angolo per il solito rito. Quello della dose. Davide aveva provato per mesi a resistere, si era inventato qualsiasi scusa per non seguirli nella stradina. Era sotto terapia al Sert, segnalato dalla Prefettura. Se sgarrava, finiva in galera. E lui non voleva. Ma la voglia, assieme alla stanchezza, lo rendevano debole. Due giorni prima di andarsene l'aveva detto a Marta, ma lei all'epoca, non sapeva neanche cosa fosse l'eroina. E non poteva capire. Marta lo vedeva giù di morale, aveva cercato di invitarlo a ragionare, a non mollare. Ma le sue erano parole inesperte ed inutili. Due giorni dopo, Davide se ne stava, freddo e bianco, a penzolare da un albero in fondo al campo di pomodori. Una corda stretta al collo, i piedi che ondeggiavano come il rintocco di un pendolo stanco e vecchio. Una lettera in tasca, con due parole, due. "Sono stufo". E ai piedi del tronco dell'albero, una dose di eroina ancora chiusa dentro la stagnola. Aveva resistito ma sapeva che la prossima volta non sarebbe andata così. A Marta, allora diciassettenne, fu impedito di arrivare fin sotto l'albero e vedere Davide in quello stato. Era la piccola del gruppo, cercarono di proteggerla da quella visione così drammatica. Marta riuscì solo a vedere i piedi di quel ragazzo, dallo sguardo sempre triste. Per anni non ci pensò più, il tempo finisce con il collocare i ricordi in un qualche cassetto del cervello, non sempre a portata di mano.
Venti anni dopo, quell'immagine era tornata all'improvviso a farle visita. Era nel suo studio, con un paziente nuovo. Un ragazzo di vent'anni. Occhi grandi, sguardo assente. Il cognome gli diceva qualcosa. Poi il ragazzo le raccontò di essere orfano di padre, morto suicida tanti anni fa. E Marta ripensò al suo vecchio compagno di raccolte. Quel ragazzo che aveva lo sguardo sbruffone di chi si crede già grande era il figlio di Davide. Francesco, così si chiamava il ragazzo, le spiegò che suo padre era morto prima che lui venisse al mondo. La madre non sapeva ancora di esser incinta quando quell'uomo si ammazzò, le disse.
Marta deglutì forte, senza dire nulla. Ma pensava. Forse se Davide avesse saputo, forse, non si sarebbe ucciso.
Ma era la sagra dei se, quel pensiero, e Marta tornò subito al suo paziente; erano in terapia, le divagazioni non erano ammesse. Francesco continuava a parlare, le diceva che il suo problema non era grave ma che sua madre lo stressava e quindi l'aveva costretto a rivolgersi ad uno specialista.
Lei lo era? Il problema, continuò il ragazzo, era la sua apatia. Si svegliava stanco, a scuola non rendeva, a volte al mattino si svegliava tardissimo e perdeva le prime due ore. E sua madre, che lavorava tutto il giorno, non sapeva più cosa fare con lui.
Marta ogni volta che sentiva questi discorsi, dentro, si indignava. Giovani che non hanno sogni, aspirazioni, voglie. Svogliati, pronti solo a scatenarsi in discoteca per tentare di avere voglia. Anticipavano tutto, dalla droga al sesso, e non gustavano nulla. Da lei ne passava qualcuno ed ogni volta sentiva dire le stesse cose. Sapeva che il problema era uno solo: questi ragazzi non avevano nessuno con cui parlare davvero, un adulto con cui confrontarsi.
Francesco, pensò, era il paziente perfetto per la sua terapia speciale. Gli diede appuntamento così per la settimana successiva. Quando il ragazzo se ne andò, Marta, non appena la porta della stanza fu chiusa, aprì il cassetto e tirò fuori la pallina rossa. Se la mise al naso, azionò il led luminoso e si voltò a guardar fuori dalla finestra, sorridendo.
Il mercoledì successivo arrivò in fretta. Francesco si era stupito della telefonata di Marta che gli comunicava che l'appuntamento non era al centro ma in un asilo. Ma non osò chiedere il motivo e alle tre era davanti al portone della scuola. In spalla, lo zaino carico di libri. La faccia stanca, dopo una notte con gli amici passata a fumare "nero".
Varcò la porta e sentì il brusio dei bambini che urlavano. Erano tutti seduti a terra e ridevano nella sala del refettorio, vicino all'ingresso. E vide un pagliaccio che gli veniva incontro. Aveva una grande parrucca rossa, gli occhi neri e le guance contornate di bianco. Al centro una bocca rossa, enorme, aperta in un sorriso grandioso.
"Muoviti, devi preparati", disse il pagliaccio.
E Francesco rimase a bocca aperta, riconoscendo la voce di Marta, la sua terapista.
"Ma...che vuole?". Il ragazzo non potè dire altro, il pagliaccio lo trascinò in una stanzetta dove c'èrano vestiti e trucchi.
"Mettiti quel grembiule da scolaro con il fiocco grande e truccati". Il pagliaccio ordinava e Francesco, allibito, buttò per terra lo zaino e incrociò le braccia. "Se lei ama farsi deridere, io non sono così", replicò.
Marta, irriconoscibile vestita da dottoressa Pippi, il suo nome d'arte, lo copiò. A braccia consente lo guardava, battendo il tempo con l'enorme scarpa che portava al piede destro.
"Tu sei in terapia, con me. E il patto è che se ti chiedo di fare una cosa, tu la fai Francesco. Non sono qui per deriderti o farmi deridere. Men che meno da te. Adesso muoviti, che dobbiamo lavorare. Sei sveglio, però, hai capito subito che ero io".
Francesco allibito, si girò a guardare i vestiti appesi ad una sbarra e i trucchi coloratissimi con il cerone bianco e i rossetti di tutti i tipi. Marta, intuendo i suoi pensieri, gli si avvicinò e prese il martello di gomma dal tavolo. Che finì irrimediabilmente a colpire la testa del ragazzo. "Muoviti", gli sussurrò la terapista e se ne uscì mimando un passo da marcia militare.
Francesco non ci capiva niente, si sentiva morire di vergogna, dentro. Un pagliaccio per terapista. "Ma quella è matta, altro che terapista. Dovrebbe farsi curale lei", disse tra sé. Controvoglia, infilò il grembiule nero e sistemò al collo l'enorme fiocco blu. Poi passò davanti alla scatola dei trucchi e pensò di fare un bello scherzetto a quella stronza. Prese la matita nera e disegnò tra labbro superiore e naso un baffo alla Hitler. Prese il gel e si lisciò i capelli. Poi si guardò allo specchio, sembrava un bambinone cattivo. Azzardò pure un sorriso , il risultato fu un ghigno inquietante.
"Così fai paura, tu sei il cattivo, vero?". La voce lo sorprese davanti allo specchio mentre faceva smorfie al suo riflesso.
A parlare era un bambino . Piccolo e con gli occhi a mandorla.
"La dottoressa Pippi ti aspetta", gli disse il bambino. "Muoviti, cattivo". E il piccolo cominciò a tirarlo per il grembiule, spingendolo a seguirlo. Francesco sbuffava, sentiva i piedi pesanti e sudava. Aveva paura.
Seguì il piccolo fino al refettorio. E vide Marta o la dottoressa Pippi come si faceva chiamare, seduta tra i bambini a confezionare animali e fiori fatti con i palloncini gonfiati. Marta neanche lo badava, continuava a far facce strane gonfiando i palloncini, poi li manipolava come burro e tirava fuori , con gesti veloci, una margherita e dopo un cagnolino.
I bambini ridevano ad ogni smorfia. Una piccola con le trecce si era avvicinata così tanto che gli alitava quasi in faccia. E Marta se la rideva, felice.
Francesco rimase in piedi in mezzo ai bambini a guardare, con un lembo di grembiule ancora stretto dal piccolo cinese.
Che lo fissava, con lo sguardo contrito.
"Che hai moccioso?", gli disse Francesco.
"Non mi sei simpatico, tu non ridi mai?", fu la risposta del cinesino che poi lo lasciò solo in piedi ed andò a sedersi davanti a Marta. Lei, la dottoressa, non lo guardava manco di striscio. Il tempo passava e Francesco così conciato si sentiva un cretino. Allora si avvicinò alla dottoressa e le parlò.
"Cosa devo fare? Sto qua a non far niente, mi sento uno scemo".
"Divertiti", fu la risposta di Marta.
La dottoressa gli passò il martello di gomma. E Francesco si accorse che tutti i bambini lo guardavano, muti e seri. Allora cominciò a camminare, su e giù, su e giù, come in una marcia militare. E ad ogni passo si tirava una martellata in testa. Il sorriso mimava il gnigno cattivo provato prima allo specchio. E i bambini ridevano, alcuni si erano alzati e camminavano come lui. Si formò così una sorta di carovana con Francesco come apripista, una cattiva majorette capo con i baffetti alla Hitler. Poi intervenne Marta che tirò per finta un calcio nel sedere di Francesco. Lui intuì l'azione e si proiettò in avanti come se quel calcio l'avesse davvero colpito. E la carovana ogni tre passi vedeva quello dietro tirare un calcio a quello davanti e il primo saltar in aria come in una danza di grilli. Francesco aveva buttato via, dopo mezz'ora di salti e risate di bambini, il suo ghigno cattivo e se la rideva. Non se ne era manco accorto, fu Marta a farglielo notare.
"Ti stai divertendo, vedo. Mi sa che come prima terapia non è andato così male".
Francesco la guardò, con una sguardo interrogativo. "Lo dobbiamo rifare?".
"Certo _ ribattè pronta Marta _ la prossima settimana. Creati un personaggio, datti un nome. E arriva puntuale che avremo un sacco di cose da fare".
"Ma io non so far ridere, non so manco divertirmi _ rispose Francesco, con la faccia arrossata per le corse _ insomma non sono capace".
"Per esser felici non si nasce imparati _ disse Marta, simulando una voce da vecchia _ non devi imparare a far felici gli altri, a farli ridere. Se ridi tu e sei felice, gli altri staranno bene standoti vicini. Ed ora torna coi ragazzini che devo cambiarmi".
Francesco la guardò andarsene con il suo passo saltellante, i piedi dentro le scarpe di dieci misure più grandi, la parrucca rossa riccia che ondeggiava al passo e il cuscino a gonfiare il posteriore dentro la tuta bianca da operaio. "Dottoressa, sei tutta matta", le urlò. Marta si voltò e gli sorrise accennando un passo di rumba.
Francesco le corse incontro, frugando dentro la tasca dei jeans. Tirò fuori una foto. "Dottoressa, questo era mio padre".
Marta vide la faccia di Davide e tornò a sorridere. " Sì, lo conoscevo. Tuo padre, Davide, era mio amico tantissimi anni fa".
Francesco la guardava ed ora sembrava davvero il ragazzino che era in realtà.
"Dottoressa, poi mi racconti di lui?"

venerdì 21 novembre 2008

succulente

Da quando abito sola, nella mia casa, purtroppo, non ci sono animali. Un cane non riuscirei a tenerlo chiuso tutto il giorno in appartamento, visto che sono fuori casa dieci ore e più.
Altri animali ? Il cane per me è il massimo, amico , complice, coccoloso.
Ma vengo da una famiglia dove gli animali sono sempre stati parte integrante della vita. Nell'ordine sei cani, a volte anche due alla volta, un'oca bianca, un gallo da combattimento, un gallo normale ( George, il mio amico di tante corse in bicicletta sul cestino della graziella), una infinità di passerotti caduti dagli alberi, due anatre (Anita e Garibaldi), ora tre piccioni, e poi una collezione di lumache ( la mia), di formiche ( la mia) , di granchi alloggiati nella vasca del secondo bagno ( pure quelli miei) dal numero imprecisato. Nel conto vanno messi anche due conigli, un merlo indiano ed uno sterminio di merli comuni.
Se avessi il potere di reincarnare o fossi esperta di clonazione, farei rivivere Lea, il lupone che mi ha insegnato a camminare e salvato dall'annegamento in un fosso ad un anno e mezzo.
Sarò banale ma adorerei vivere tra i cani.
Aspetto di coronare il mio sogno, quando ( quando?) sarò in grado di comperarmi una casa con giardino e non sarò schiava delle troppe ore in ufficio. E allora per far vivere davvero la casa cosa ho fatto? Ho riempito ogni angolo di piante grasse, le succulente. Sono un esercito, una ventina. Piccole o grandi, mostruose o cactus, banali o ricercate. Con loro parlo, le curo, le coccolo, le bagno d'estate, metto loro il cappotto d'inverno.
Mi feriscono con le loro spine ma mi regalano fiori incredibili, spaventosamente belli. Durano spesso una notte, come le emozioni più belle.

Ho visto...

Questa settimana è stata ricca di immagini. E di facce. Tutte diverse, tutte da preservare dall'oblio di una giornata passata a correre.
C'è la faccia allegra e spassosa del dottor clown che mi ha spiegato che fare volontariato non significa far del bene agli altri per mettersi a posto la coscienza, ma esser felici di far felici gli altri, un pochino tutti i giorni.
C'è la faccia intimidita del ragazzino che ha frequentato il corso di clownerie e mi racconta, felicissimo, di aver acquistato sicurezza in sé stesso e di aver fatto felici i genitori che temevano non volesse combinar niente di buono nella vita.
C'è la faccia triste di un mio amico, che è rientrato da un viaggio in Sudamerica, innamorato pazzo di una ragazza che chissà tra quanti mesi rivedrà.
C'è la faccia scontrosa di una signora che ha insistito per ore nel criticare, e a volte a ragione, il lavoro che faccio.
C'è la faccia serena di mia sorella che abbraccia mio nipote che mi tiene la mano al punto che l'abbraccio sembra unico, anzichè trino.
C'è la faccia gentile del cameriere indiano che oramai mi saluta, al ristorante, come se fossi una di casa.
C'è la faccia di un uomo che non volevo vedere, che mi è capitato di rivedere, e che non voglio vedere più mentre si accorge di quanto, oggi, sono diversa da quel che lui aveva deciso io fossi.
C'è la mia faccia allo specchio che si osserva e se la gode.

lunedì 17 novembre 2008

Percentuali

Un giochetto che facevo una volta era quello delle percentuali.

Il corpo umano è composto per il 60 per cento di acqua
Nel mio direi che la percentuale scende ben sotto il 50; il resto è vino, meglio se rosso, e rum e grappa. Da ieri sera c'è anche un goccio di Pisco.
Il livello di nicotina è alto: stimerei almeno un 30 per cento.
Ma il livello, invece, delle cellule cerebrali affumicate è ancora basso. Facciamo al massimo un 2 per cento.
Un buon 90% dei miei pensieri è fatto di sincerità.
Riesco di fatto a dire bugie solo se c'è di mezzo la mia sopravvivenza fisica.
E per fortuna, non capita spesso.
Il 100 per cento del mio sentire è passionale ed istintivo.
Il 60% del mio essere è sensuale. L'altro 40% è assolutamente auto-ironico.
Questa parte la studio da anni: ho scoperto di essere la clonazione di un procione, specie al mattino quando mi sveglio. E un procione in lingerie alla fine fa ridere. Per fortuna, sempre.
Se mi arrabbio, il tasso di aggressività sale al 90 per cento, e tendo a puntare alla giugulare. Se vengo placata, o in condizioni normali, l'aggressività scende a zero.
La percentuale di amanti annoverabili come fighi dalle altre è del 10 per cento.
La percentuale di felicità personale è mediamente dal 60 al 70 per cento, a seconda delle situazioni e delle condizioni meteorologiche.
La percentuale di ricerca del piacere personale è al 100 per cento, tutti i giorni.

Il risultato, come anni fa, è che mi piaccio. Se esiste una percentuale , è l'infinito.

domenica 16 novembre 2008

L'autobus della linea 7

Quando l’ho notata per la prima volta in mezzo alla calca di gente, sull’autobus della linea 7, è stato solo un istante. E da allora è dentro di me. Continuo a cercarla. Salgo sul bus ogni giorno a Mestre, destinazione Venezia, porte dei Tre archi. Tutti i giorni, domenica compresa. Per me c’è sempre lavoro, non si va mai in ferie.
Di solito per passare il tempo, provo ad immaginarmi chi siano i miei compagni di viaggio. Cerco di indovinare che lavoro fanno, se hanno figli o mogli o mariti che li aspettano. Se il collega che fissano di continuo è il loro amante o un odiato rivale verso la promozione. Lo facevo anche da piccolo, quando mia madre stava tutto il giorno al lavoro, mia sorella doveva studiare e io alla fine mi mettevo alla finestra ad immaginare che vita facessero le persone che mi passavano davanti casa. Ma torniamo a quel giorno. Io me ne stavo seduto ad osservare l’impiegata del Catasto, stranamente ben vestita, con la piega fresca di parrucchiere e l’abitino stirato. Parlava con un collega e si toccava sempre i capelli. L'avevo capito: quell'uomo alla signora del Catasto piaceva proprio. Ma lui sembrava assente.
Poi l’ho vista , seduta sul sedile opposto al mio.
Carnagione chiara, capelli castano scuro. Un viso dolce perso in un corpo non certo magro. Le unghie dei piedi tinte di color ciliegia spuntavano dalle infradito rosa, portate su jeans scampanati larghi. A coprire i seni prosperosi una canottiera verde militare. Non era bella ma qualcosa in lei mi attirava ed eccitava. Al collo portava un ciondolo di acciaio, che ondeggiava seguendo i sobbalzi degli pneumatici del bus sull'asfalto del ponte della Libertà. Mi è apparsa all’improvviso, era impossibile non stare a guardarla mentre il ciondolo rifletteva davanti a me un ballerino raggio di sole.
Silenziosa, lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri. Un nasino simpatico. Ma furono le labbra a colpirmi. Le guardavo e mi veniva voglia di sfiorarle, per sentire se erano davvero umide. E dolci.
All’improvviso la sua bocca si è aperta in un sorriso e io ho temuto di esser stato scoperto. Ho girato la faccia di scatto e mi sono subito messo a fissare diritto davanti a me. Come un ragazzino spaventato. Sono rimasto immobile a fissare la nuca del ragazzo moldavo del sedile davanti. Non l’ho più guardata finché non siamo arrivati in via Poerio e sono dovuto scendere.
Mi sono lanciato fuori, trasportato dalla ressa , e dopo aver messo un piede sul marciapiede, ho respirato forte. Ero turbato.
A lei non ho più pensato, finché il giorno dopo sul bus delle 17.30, stesso tragitto e stesse facce serie, mi sono sorpreso a guardare con la coda dell’occhio verso il sedile dove c’era lei , il giorno prima.
No, lei non c’era. Poco male, mi sono detto. Ma mentivo: dentro di me si era oramai insinuato un lieve fastidio. Un disappunto per una assenza non desiderata? Non credo nei colpi di fulmine, del resto non sono un tipo che ci casca. O meglio non mi è mai capitato che qualcuna mi guardasse e mi amasse. Di solito se mi guardano è per mandarmi a quel paese insultando mia madre. Che non ha colpe, anche perché è morta. La gente di solito mi evita e le donne che riesco a frequentare sono le ragazze del campo. Troppo indaffarate a pensare alle loro vite bastarde. E poi anche se vivo con loro da tempo, con me, gratis, non vengono.
Andata e ritorno. Mestre-Venezia, Venezia-Mestre. Io che la cercavo in mezzo alla calca del bus e lei che non si vedeva mai. E il fastidio diventa disappunto, la vana ricerca del suo volto mi innervosisce.
Poi, finalmente, è successo.
Ero sul ponte a lavorare. Me ne stavo a testa china , rannicchiato a terra ad aspettare i miei clienti, come tutti i giorni da tre anni a questa parte. La testa bassa, come una posa d'ordinanza. Non devi mai guardare, il cartello parla per te. E' il mio modo di superare la vergogna di dover far finta di avere tre figli che mi aspettano a casa. Quale casa, che un tetto sopra la testo non ce l'ho più ...E quali figli, che non ho manco una donna che mi guardi.
Davanti a me quel giorno, all’improvviso, è apparsa un’unghia color ciliegia. Un piede inserito dentro delle infradito rosa. Sopra un lembo di jeans dal fondo largo. Erano lì, fermi davanti alla mia faccia. Non ho avuto il coraggio di alzare subito la testa, ma dentro di me avevo caldo. Avevo capito perfettamente che era lei. E la volevo.
Poi il rumore, un lieve tonfo. La moneta da due euro che cade dentro il cappello. Allora ho alzato la testa. Lei stava guardando me, attraverso i suoi grandi occhiali neri. Sorrideva e io le sorridevo.
Poi la mia mente mi ha lasciato, non era più con me sul ponte dei tre Archi. All'improvviso ero lontanissimo da Venezia.
Sono a casa. Sto correndo , le mie mani sfiorano le spine di grano del campo e sento, nitida, la voce di mia madre che urla dalla finestra che è pronto da mangiare. Ma io non voglio andare, in fondo al campo c’è Anja, la dolce, che si faceva toccare di nascosto per capire cosa provasse suo padre nel farlo alla signora della drogheria.
Anja, che mi aspettava con la gonnellina stretta tra le gambe e le calzette arrotolate e mi chiedeva di non fare troppo in fretta, ma poi mi sorrideva con quelle labbra rosa che solo una volta ho avuto il coraggio di sfiorare. Sapevano di mare.
Stop.
Una voce mi ha risvegliato all’improvviso dal mio sogno ad occhi aperti. Era un uomo tarchiato, sui 50 anni che mi toccava con un bastone, pieno di astio. Mi urlava di spostarmi perché la signorina doveva passare. Ero un pulcioso, ero di intralcio, mi urlava. Io non mi sono mosso: fissavo il bastone, pronto a sferrare un colpo se osava ancora toccarmi. Ma il bastone non era più puntato verso di me. Lo aveva la ragazza: lo teneva in mano, andandosene, per scandire il passo davanti a sé. Intanto il tarchiato continuava ad imprecare. Mi diceva che dovevo vergognarmi.
Bella scoperta, tutti i giorni la vergogna mi faceva compagnia ma quello stronzo come poteva saperlo?
Non potevo più restare, così ho raccolto il cappello e i soldi e sono corso verso piazzale Roma. Sembravo uno che aveva appena rubato. Qualcuno mi indicava e si guardava attorno per vedere se arrivavano i vigili. Dovevo arrivare in fretta a piazzale Roma. Sparire è la prima regola della sopravvivenza. Il 7 , per fortuna, era al capolinea . Ancora pochi passi, un saltino ed ero finalmente al sicuro.
Dentro il pullman eravamo in quattro. Un operaio dei cantieri De Poli, un pensionato con il nipotino ed io. Ma c’era anche una quinta persona, sul fondo. Non l’avevo vista salendo. Era lei, bellissima, sorridente. Cieca.
Mi sono andato a sedere vicino a lei, lasciando uno spazio tra noi. Ero intimidito. Lei aveva lo sguardo fisso davanti a sé e spostava ogni tanto la testa, a sinistra e destra. Come se ballasse una musica immaginaria. Non sentiva, ho pensato, la mia presenza a pochi passi da lei. Il bus è partito praticamente vuoto, si correva veloci lungo il ponte della Libertà. In fretta siamo arrivati in via Poerio ma io non sono sceso, non potevo. La mia faccia era girata a fissarla, per cogliere esattamente ogni tratto del suo viso.
Pensavo che sarei stato volentieri con lei nel campo in cui da ragazzino imparavo il piacere con la piccola Anja. Mi chiedevo come sarebbe stato sentirla godere. Sentire la sua mano fermarmi chiedendo di rallentare. Il mio respiro che segue il ritmo del suo.
-Scusi. Potrebbe suonare, devo scendere alla prossima.
Lei stava parlando proprio con me. Guardava verso di me. La sorpresa mi ha paralizzato, intimorito. E non ho fatto nulla. E' stato l'operaio a correre a premere il bottone della prenotazione della discesa.
Lei si è sporta in avanti , tendendo la schiena, poi si è fermata. Allora, con il dito le ho toccato il labbro inferiore. L’ho solo sfiorato, lo giuro. Non ho fatto altro, poi sono corso verso la porta, sperando che lei non urlasse, che l' autista aprisse in fretta la porta. Per scendere e sparire, prima che fossero guai.
Lei, silenziosa, si mise dietro di me. Mentre attendevo che la porta si aprisse, sentivo il suo sospiro sulla mia nuca. Avevo paura, ma mi sono ritrovato a respirare al suo ritmo.
Poi si sono aperte le porte, siamo scesi ed appena ho messo un piede a terra, come se fossi solo allora davvero in salvo, di colpo mi sono voltato e le ho parlato.
Come mi sia venuto in mente di farlo, non riesco ancora a concepirlo.
-Posso darle una mano, signora?
Lei mi ha sorriso, ringraziandomi ed ha appoggiato la mano sul mio braccio. Un appoggio saldo, per scendere. Ha mosso solo pochi passi sull'asfalto. E la mia bocca è tornata ad aprirsi.
- Scusi, ha perso qualcosa.
Le ho messo tra le mani la moneta da due euro che aveva lanciato nel mio cappello. Lei dubbiosa, si è messa a girare la moneta tra le dita. Mi ha ringraziato e sorriso. E se ne è andata via, portandosi dietro il suo odore di campo di grano, di gonne alzate e calzettoni alle caviglie, di sudore e strofinamenti. E io, l’accattone del ponte dei tre archi, sono rimasto a guardarla allontanarsi da me, cercando il suo odore sul mio dito.

sabato 15 novembre 2008

Della cioccolata e altri vizi

Ci sono giorni in cui solo un quadratino di cioccolata ti salva davvero. Due centimetri di lato, nero fondente , meglio se all'arancia o prodotto a Modica, e la tristezza va a farsi benedire.
Sono coccole pericolose, dirà qualcuno, che finiscono con il pesare sul girovita.
Ma sono una necessità. Cosa fai quando arrivi a casa stanca dal lavoro? Un bel bagno caldo, una cena curata. Sono gesti quotidiani.
A volte non bastano. A volte neanche una bella musica ed un libro o un film ti rasserenano. A volte si ha bisogno di dolcezza, un surplus, una attenzione speciale. Ed ecco scattare l'auto-coccola giusta e doverosa. Io la chiamo così. Non mi aspetto mai che siano gli altri a fornirmi la coccola, me la concedo da sola. A volte la chiedo, è vero. Ma di solito sono io stessa l'artefice della mia coccola. E' un piccolo vizio di cui mi vanto, il sapermi amare.
Lo scriverei pure sulla Costituzione: oltre alla libertà di espressione, di critica, di voto, di avere una vita sana e con un tetto sopra la testa ci scriverei pure: caro Italiano hai il diritto/obbligo di volerti bene...
A volte lo so esagero, e questa può essere considerata tale, ma sono partita dalla cioccolata per arrivare al volersi bene. Se non ti vuoi bene tu, come puoi aspettare che lo facciano gli altri. Me lo diceva mia nonna, ad ogni occasione, ed aveva ragione. Pure lei, donna religiosissima e devota alla famiglia, pure lei aveva le sue auto-coccole: sniffava tabacco da fiuto. Le piaceva un casino. Cosa era se non un vizio? Lei la chiamava coccola ed ho finito per usare anche io quel termine. Ma ho deviato sulla cioccolata: una tavoletta mi dura settimane. Ma ci deve essere in casa, al pari dell'aspirina. E se qualcuno mi dice che in realtà sono una viziosa, ben venga. Delle persone preferirei conoscere i vizi più che le virtù, spesso così palesi, perché i vizi sono quelli che ti consentono di guardare oltre il cervello, di arrivare alla pancia delle persone e scoprirne la vera indole. E non venite a dirmi che esistono persone senza vizi. Moltissimi li tengono segreti e così i loro vizi risultano mal vissuti, per timore di sconvolgere. Io ho imparato a conviverci con i miei vizi. Me li tengo stretti, li lascio liberi ogni tanto. Così li controllo a distanza. Sono io a decidere quando liberarli, non loro. E ci vivo bene, perché mi danno quello di cui ho bisogno. Da sola o in coppia non ci rinuncerei. La cioccolata, mangiata in due, non perde affatto di potere e sapore. Anzi, aumenta i suoi effetti. Quindi quella che per me è una auto-coccola, può risultare una coccola offerta. Un vizio personale diventa condiviso. Coccola uguale vizio. Alla fine più ci penso e il termine migliore da usare sarebbe: piacere. Un mio amico medico mi spiegava che tutte le dipendenze nascono da lì, dal bisogno di avere piacere. C'è chi non ha bisogno di surplus e c'è chi lo cerca ovunque. C'è chi li chiama vizi, c'è chi come mia nonna, coccole. Sempre bisogno di piacere è alla fine. Il mio.

giovedì 13 novembre 2008

Mi manca

Sono qui a pesare tutta questa mancanza.
Non me ne ero mica accorta, finchè non l'ho sentita.
Palpabile, pesabile, evidente.

martedì 11 novembre 2008

La banda

La banda era un disastro. L’attacco di ogni marcetta sembrava una scoreggia in progressione, altro che allegro andante sul mosso.
Lo zio Gigi , seguito a ruota da zio Giuseppe, si lanciava immancabilmente in una improvvisazione di mazurca che deviava sul jazz che mi costringeva, pur non volendo, ad accelerare il passo. E Gianni alla grancassa, dietro di noi, giù a ridere. E a battere, aumentando il ritmo. Gli altri finivano con l’andare a più non posso. Con il risultato che ogni esibizione, si riduceva di due, tre minuti buoni e si finiva sfiniti a ridere davanti al maestro Perdiboni.
Lui oramai non ci faceva più caso, diceva. Ma veniva tradito dal sopracciglio. Che ad ogni stecca di zio Gigi si sollevava come se un burattiniere folle lo stesse azionando dall’alto, per farlo sembrar ridicolo ai nostri occhi anche se a parole, il Perdiboni, lodava ogni nostra esibizione. In privato, invece, sapevamo bene che diceva.
Musica da cani, la chiamava. Suonata da cani.
Lui, maestro del Conservatorio in pensione, andava avanti imperterrito con la sua scuola di solfeggio e le prove della banda per portarci , diceva, sulla retta via dell’arte musicale. Perdiboni credeva davvero nel suo lavoro. Anche se mi mandava a salutare i parenti lontani in Cina ( mai conosciuto uno di quelli) ogni volta che svuotavo il sax e la saliva dal condotto usciva inesorabile, finendo sopra le sue scarpe di pelle tanto curate. A volte usava un altro termine, “Va in mona”, ma quello è un dettaglio.
Scarpe da ballerino indossava il Perdiboni: era un appassionato di valzer e tanghi. E ogni tanto, quando andavamo in trasferta con la banda, finito il concerto, mi invitava a ballare alla sagra del paese. Ero una frana anche in quello ma forse gli stavo simpatica, tanto mi stringeva a sé costringendomi a mettere i piedi al posto giusto. E il sopracciglio da folle spariva. Stringeva e sorrideva. Con Perdiboni ho imparato a ballare e ad amare la musica, nonostante tutto.
E anche a capire dove si posano le mani degli uomini.
Se ho iniziato a fumare invece lo devo agli zii Gigi e Giuseppe. La prima sigaretta? Una Nazionale senza filtro.
La prima prima? Eravamo impegnati in un concerto al Carnevale di Venezia, sulla scalinata della chiesa di Vivaldi, il prete rosso. E tra un pezzo e l’altro, ci si divertiva ad allietare il pubblico di turisti con fette di salame e bicchieri di vino rosso. Ad ogni bicchiere, zio Gigi deviava sempre più sul jazz e zio Giuseppe gli andava dietro. All’ultimo pezzo, la marcia di Radetzsky, erano completamente ubriachi. Posati i sax tenori e preso in mano il bicchiere di grappa offerto da Pippo della sezione clarinetti, mi misero in bocca una Nazionale senza filtro e la accesero, ridendo come pazzi.
Io non ero come loro, suonavo il sax contralto. E dopo la prima tirata di Nazionale, che mi divampò in gola come un fuoco, mi misero in mano il bicchiere di grappa, quella del nonno, per spegnere _ dicevano _ il fuoco del tabacco in gola. Il risultato fu terribile, io che arrancavo sulla scalinata tenendomi la gola in fiamme e loro a ridere come due pazzi. E i turisti, dietro, come galline starnazzanti. A ridere di me. Pensavano fosse parte dello spettacolo di Carnevale.
La banda era così, una compagnia di vecchi e giovani con il ritmo accelerato e l’orecchio tutt’altro che assoluto, ma animati da una sana passione per il cazzeggio. Per noi, ragazzini all’epoca, era anche un modo per stare assieme e vedere posti lontani. Siamo arrivati fino a Cento, provincia di Ferrara, ma a noi bastava: sembrava lontanissimo milioni di chilometri da Mestre. E soprattutto nei viaggi in bus, andata e ritorno, quando le giacche strette e i cappelli a forma di panettone, ovvero la divisa d’ordinanza della banda cittadina ,finivano in alto, ammucchiati nei porta-oggetti, dentro il pullman si cantava e si rideva. Dal “Mazzolin di fiori” a “Parole, parole,parole” di Mina , era tutto un cantare.
Io mi divertivo alla grande, mi sentivo proprio come Mina, con una voce possente da usignolo, e il maestro ogni volta mi invitava a provarci ad iscrivermi al Conservatorio.
“Studia da cantante”, mi diceva e poi ci mettevamo a ballare. Ma la voglia di studiare era poca, ben di più quella di divertirsi. E nella banda, la risata non mancava mai. E a me bastava. Gli scherzi erano all’ordine del giorno. Dal pongo infilato dentro ai sax, resi afoni di colpo. Ai clarinetti con lo scotch all’interno dei componenti per rendere difficilissimo l’assemblaggio. E soprattutto il cambio di musica al volo, con una marcia che diventa improvvisazione jazz. Oppure il grasso per tenere saldi le varie parti di sughero del clarinetto, messo sopra al burro cacao con cui cercavamo di evitare la formazione dei calli sul labbro inferiore, causato dalla vibrazione dell’ancia in bocca. Una puzza indicibile, la bocca che sapeva d’escremento. E voglia di suonare, pari a zero. Quello era il risultato. Le zingarate rovinavano il lavoro di Perdiboni. Chiunque ci avrebbe rimesso le orecchie nel disastro generale delle prove nella palestra della scuola, dove tutti i mercoledì provavamo. Due ore di lavoro ( si fa per dire) e poi via a mangiar panini con il salame. E il vino per i grandi e aranciata per i piccoli. E la grappa del nonno. Clandestina, quindi servita con circospezione. Zio Giuseppe la rubava di nascosto ma mio nonno aveva sempre la scorta assicurata. Come faceva? La nascondeva dentro le bottigliette dello sciroppo, il vecchio. Lo scoprimmo dopo anni, quando il medico di famiglia annusò il contenuto della boccetta e quasi svenne per lo spavento. Mio nonno anche allora ebbe la battuta pronta. “Sarà scaduto”. Ma al primo sorso, il dottore non ebbe dubbi e svelò il trucco. Altro che anti-tosse, quella era grappa fatta in casa, fece notare. “ Ammazza tutto”, replicò il vecchio. E aveva ragione.
Noi ragazzini della banda, a suon di sorsetti di grappa, eravamo certo già svezzati all’etilismo veneto ma non beccammo un raffreddore manco a pagar oro. Io invece cominciai a far l’abbonamento alla tosse. Colpa delle Nazionali senza filtro, rubate agli zii e fumate in bicicletta con Marco e Marina, i miei amici inseparabili. Stavamo assieme tutti i pomeriggi o almeno riuscivamo a vederci tutti i giorni anche se io avevo due pomeriggi impegnati con il basket e loro due andavano al Conservatorio per ottenere il diploma di clarinetto. Ogni mercoledì sera avevamo l’appuntamento con la banda e la domenica pomeriggio la passavamo assieme, inseparabili. Tre come uno, uno come tre. Avevamo anche fatto il patto di sangue, lo chiamavamo così. Ma senza sangue. In realtà ci eravamo baciati a turno in bocca, come vedevamo nei film della mafia. Solo che eravamo furbi e abbiamo lievemente dilungato, anche per non arrivare impreparati al terribile appuntamento con il gioco della bottiglia alla festa a scuola. Bacio alla francese, diceva Marco che era sempre all’ultima moda. Sì, ma la lingua dove la mettevi? Ne discutemmo per giorni fino a decidere di provare tra noi, per capire. Marco rischiò di soffocarsi tenendola indietro sotto i denti il più possibile. Marina sembrava mangiasse un gelato. Io puntai a tenerla sul lato sinistro. Del resto ero mancina. E figlia di comunisti. Quel bacio suggellò l’amicizia. La banda resiste ancora, noi siamo ancora amici. Marco ha preso la sua strada ed è in una isola deserta,decisamente lontana, a spassarsela con i bicipiti. Marina è mamma di due splendidi bambini e insegna ai ragazzi disabili come comunicare con la musica.
Io, beh, io sono alla prese con la mia tosse. E ogni tanto in testa mi risuona la marcia di Radetzky e rido. E la lingua va a sinistra e sfioro il sax. E finisco con il cantare come Mina.

domenica 9 novembre 2008

Gigio, il marziano

Eravamo amici, io e il marziano.
La prima volta che vide il mare, mi chiamò al cellulare. Ricordo che era pomeriggio, e la sua vocina urlava dentro al telefono.
"L'ho visto, l'ho visto. Sono entrato dentro, con i jeans e la maglia!"
Gigio quel giorno era davvero felice. Quando chiuse la comunicazione, dopo avermi urlato per trenta minuti nell'orecchio la sua gioia e i giochi di spiaggia e le onde, io piansi. Di felicità. Chi era con me non ci capì nulla, ma poco importa.
Gigio aveva visto il mare, per la prima volta, a sessant'anni.
In realtà era come se ne avesse diciotto di anni, era come un ragazzino alla scoperta del mondo. Il mare, la pizzeria, la discoteca, le gite in montagna. Un diciottenne che viveva in un posto da vecchi, ospite di una casa di riposo .
Viveva in un corpo da vecchio in mezzo ad anziani non autosufficienti e per loro era diventato un simpatico punto di riferimento. Eccentrico, ma utile, e soprattutto allegro. Gigio accudiva il giardino, andava al mercato a far le spese per gli ospiti che non potevano muoversi oppure andava in farmacia a far le commissioni. E soprattutto nel giardino della casa di riposo aveva creato un angolo dove dava ospitalità agli uccellini abbandonati o ai volatili, che d'estate restavano soli per le ferie dei padroni di casa. A Mirano tutti andavano da lui a portargli gli uccellini trovati feriti, ammalati o abbandonati. Ma arrivava anche gente che gli lasciava il canarino per due settimane. Era come una pensione per volatili. Lui, felice, accoglieva tutti i nuovi amici, li accarezzava e li metteva nella grande voliera del giardino della casa di riposo.
A me aveva spiegato perché lo faceva. Era il suo modo di rifarsi da una vita passata in gabbia, controvoglia e soprattutto forzata.
Eravamo diventati amici nella sua precedente vita. Quando Gigio era un barbone che viveva al Macallè, in mezzo alle case diroccate del rione di Mestre a due passi da piazza Barche. Un giorno rischiò di morire: aveva freddo, aveva bruciato dei giornali dentro una casa diroccata e il fuoco aveva arso in fretta le assi marcite mandando in fumo lo stabile. Lui si salvò per miracolo e così il piccolo mondo del Macallè si accorse di lui.
Cominciò a vagare per i negozi, poi arrivò anche al mio ufficio. Non voleva soldi, chiedeva un pacchetto di caffè ed un chilo di zucchero. Ero incuriosita da un accattone che non chiedeva denaro ma solo cose che gli potevano servire per vivere in strada. Saliva le scale e sapevi che era lui: "Marziani!!!!" urlava non appena la porta si apriva, e io ridendo ricambiavo chiamandolo a sua volta, Gigio il marziano.
Un giorno venne a trovarmi, io ero al telefono e lo feci accomodare davanti a me, e finita la telefonata, dopo averlo visto così calmo osservarmi mentre lavoravo, ci provai. Gli chiesi chi cavolo fosse, che vita aveva alle spalle. Credo, non aspettasse altro. Mi raccontò la sua vita di bambino abbandonato dalla madre, spedito in orfanotrofio con un nuovo cognome e dopo qualche anno dichiarato pazzo, perché troppo vivace. Mi mostrò i polsi, piagati dai lacci di costrizione. I denti, scomparsi, mangiati dalle dosi di elettrochoc a cui venne sottoposto negli anni. Aveva girato i manicomi di mezzo Nord Italia. Ogni volta scappava, mi raccontò. Ma non sapeva dove andare, saliva su un treno e lo riprendevano alla fine. Tornava in manicomio, e giù dosi di farmaci e cure psichiatriche. Mi raccontò che in quegli anni aveva finito con l'abituarsi alla fine ad essere pazzo.
Non capiva niente, i farmaci lo rendevano un essere inanimato. L'elettrochoc gli strappava via i pensieri dalla testa e gli lasciava solo, dentro, un atroce dolore.
Pensava di essere pazzo e di morire da matto. Non so se tutti i suoi ricordi fossero reali o offuscati dagli anni di manicomio. So quel che Gigio mi confidò: che ogni giorno ringraziava il suo santo , Franco Basaglia che aveva conosciuto a Trieste, perché quell'uomo era riuscito a far chiudere i manicomi e regalargli la libertà.
Come molti altri, da incapace di intendere e volere, si ritrovò libero di colpo. Ma senza aiuti, riferimenti, amici finì sulla strada, passando da pazzo a barbone. E tornò a Mestre, forse perché quella città era l'unica che conosceva e qui era in fondo nato. Anche se da madre ignota.
La sua seconda fortuna fu rischiare di morire bruciato nella catapecchia del Macallè. Quartiere di lavoratori, gente per bene. Dove di notte si aveva paura a girare perché c'erano gli spacciatori. Ma lì la rete di solidarietà della gente aiutò Gigio, scampato al rogo. C'era chi gli pagava il caffè, chi il panino, chi gli assicurava il pacchetto di caffè e lo zucchero. Altro non chiedeva, andava dai frati a mangiare. Andò avanti così per alcuni anni, finchè non cominciò ad ammalarsi ed allora ci fu chi riuscì a trovargli un posto a Mirano, in casa di riposo. Lui pagava una parte della retta, con la piccola pensione che lo Stato gli passava. Gigio trovò una casa. E tornò a rivivere, si mise a fare tutte le cose che la vita in manicomio gli aveva negato. A sessant'anni vide il mare per la prima volta. Andò in montagna con gli scout e pure anche in discoteca dopo una serata passata in pizzeria. E baciò una donna. Me lo aveva raccontato in una delle sue telefonate. Era un segreto , mi disse. Tra amici. Ogni sua telefonata era una esplosione di felicità: urlava nella cornetta, chiamandomi marziana, e mi raccontava tutto quello che aveva combinato. Potevo essere in bagno, ad un convegno o a letto. Non importava, Gigio doveva raccontare.
Andavo a trovarlo in casa di riposo e mi mostrava gli ultimi amici pennuti arrivati nella grande voliera. Ed ogni volta gli occhi gli brillavano, e le rughe della vecchiaia sparivano. Mi prendeva le mani e cominciavamo a saltellare, come in un grande girotondo di ringraziamento. Come due amici, marziani.

sabato 8 novembre 2008

Amarcord





Facebook mi piace essenzialmente per gli amarcord...come questa foto
Avevo sì e no vent'anni credo....

venerdì 7 novembre 2008

Ammissioni

Potrei anche lasciarmi decorare
e poi assaggiare come una torta.

Potrei anche restar ferma
per farti vedere bene.

Potrei anche farmi suonare
per vedere che melodia ne esce.

Da te, potrei...

giovedì 6 novembre 2008

L'arte del lamento

Dovrei proprio imparare a lamentarmi.
Per ottenere. Ci sono i lamentosi di professione,quelli che ottengono attenzione e cure perchè hanno sempre la faccina da cocker abbandonati sul ciglio dell'autostrada. Gli chiedi come stanno e cominciano a raccontarti tutte le loro sfortune. A loro la vita non concede nulla, non hanno amore, nè fortuna, nè successo
e tantomeno considerazione dal mondo. Poi magari li guardi e ti accorgi che portano un orologio che tu non potresti permetterti, hanno un fisico da urlo e passano il tempo a fare shopping mentre tu ti smazzi le giornate a lavorare, con pochissimo tempo per te. Il lamentoso di professione è tutt'altra cosa rispetto ad una sana giornata di sconforto, di quelle a cui tutti andiamo incontro. Chi più, chi meno.
No, il lamentoso di professione trasforma lo sconforto in missione, per avvicinare gli altri, ottenerne aiuti e cure, migliorarsi la vita facendo preoccupare il prossimo.
Ne sto incontrando tanti in questi giorni e mi accorgo che sono davvero furbi. Come cuccioli impauriti ottengono quelle coccole, quei piaceri, quegli aiuti che io, in un momento di normale sconforto, vorrei avere ma non so chiedere perchè ho un carattere orribile e tutt'altro che votato al lamento.
Insomma, non so ottenere.

mercoledì 5 novembre 2008

A dream

Mi sono persa, per questioni anagrafiche, il primo sbarco dell'uomo sulla Luna. C'ero, invece, mentre crollava il muro di Berlino. E ci sono oggi che Barack Obama diventa il primo presidente nero d'America.
Una elezione che a noi , che viviamo da tutt'altra parte e con una situazione politica completamente diversa, serve soprattutto come tonico, per ricordarci che sognare e credere in un futuro diverso è possibile.
Tutti i giorni, con impegno. Nelle strade come nei luoghi di lavoro. Gli americani, stavolta, qualcosa da insegnarci lo hanno avuto davvero.
Crediamoci e pretendiamo una classe politica all'altezza dei nostri sogni. La prossima volta che entreremo in un seggio elettorale ricordiamolo.
Grazie.

martedì 4 novembre 2008

Non ti amo, non ti odio, non ti disprezzo: semplicemente nonti

Sei arrivato in ufficio, con il tuo solito fare arrogante.
Solo per evitare scenate, ho deciso di assecondarti.
Pigliamo 'sto caffè,
magari te ne vai in fretta, mi sono detta.

Avevi voglia di parlare e al bar hai ordinato due cappuccini.
Il caffè si beve in fretta, per il cappuccino
ci vuole più tempo, devi aver pensato.
La tazza è grande, il contenuto bollente.
Pensavi di guadagnare minuti preziosi.

E io invece me ne stavo a riflettere su
quanto sei stronzo.
Tu che neanche ricordi
che a me, il cappuccino,
visto che lo fanno con il latte,
fa male. Tengo l'allergia, demente.
Ma poi è arrivato il lampo.
E ho lasciato perdere.

Con la tua faccia da sbruffone, ti sei messo a raccontarmi
i tuoi affari privati come se io non stessi ad aspettare
altro. Ti sei messo pure a dirmi che la sentivi
la mia mancanza.
Io, silenziosa, mi bevevo il cappuccino.
Aspettavo e ascoltavo.
Ascoltavo e mi stufavo.
Poi ti sei fatto mansueto e
vicino, vicino alla mia faccia
hai detto: ti porto a cena?

Io stavo in silenzio
ad ascoltare il mio stomaco.
Un brusio sordo, dopo l'ultimo sorso
di cappuccino.
Avresti dovuto sentirlo e stare in guardia.
Avresti dovuto spostarti.
Invece mi hai detto quell'ebete "Perchè no?"
Allora ho parlato, ma era già tardi.
"Non ti amo, non ti odio, non ti disprezzo: semplicemente nonti...."
Il cappuccino vomitato sul tuo maglione
ha detto il resto.

(un grazie reverenziale a Guido Catalano per il furto di titolo, che ha ispirato il resto)

domenica 2 novembre 2008

Lettera ad un amico mai morto

Come si inizia una lettera come questa? Con un Ovunque tu sia? No, con te preferisco non prenderla troppo alla larga.
Amico, mi manchi.
Sì, lo so. Non vado in chiesa a pregarti, non vengo al cimitero a portarti un fiore
da tempo. Lo sai benissimo, che la mia non è dimenticanza o menefreghismo. E' solo che a vederti dietro una lapide di marmo non ce la faccio. Come non ce la facevo anni fa. Non credo tu sia in Paradiso, non credo manco sia giusto andare a pregare all'interno di una chiesa, visto che non credo.
Piuttosto se devo immaginare dove tu sia adesso, ti vedo in qualche isola dei Caraibi ad organizzare feste in maschera, servire cocktail e bruciarti al sole, specie quello delle passioni amorose.
Il punto è questo: anche se stai da anni sotto un cumulo di terra, per me non sei mai morto. Sarà stato tutto il divertimento che la vita nei nostri vent'anni di amicizia ci ha regalato. Sarà stato che sei andato via così in fretta che ci ho messo anni ad abituarmi e solo quest'anno ho eliminato il tuo vecchio numero di cellulare dalla mia agenda sul Blackberry. Sarà che mi sarebbe tanto piaciuto avere una mail a volte a cui scriverti, ogni tanto, per raccontarti come me la passo senza di te. Sarà che basta sentire il suono di un clarinetto perchè tu mi venga in mente.
Non dimentico niente, me lo dicevi che era un mio vizio.
E allora sappilo, sei ancora dentro di me.
In un modo diverso, certo, ma ci sei. Ti assicuro, non ti scrivo per riempire questo schermo di lacrime e pensieri tristi.
Il bello è che adesso, quando ti penso, e capita spesso senza un reale motivo, mi viene da sorridere. Penso agli scherzi impietosi, le corse in bicicletta, i segreti inconfessabili che ci raccontavamo ascoltando le canzoni di Mina. E poi le feste a casa tua con un quintale di cibo a disposizione, le birre e le angurie riempite di rum che alla fine, svuotate, finivano immancabilmente in testa a qualcuno. Ti ricordi, vero? Quel qualcuno il più delle volte ero io.
O gli scherzi in pizzeria con le scarpe che volavano sul tavolo vicino. Ridi, ancora? Sì, le scarpe erano sempre le mie. Mannaggia.
E poi i viaggi con la banda, nel disperato tentativo di azzeccare per tutta una canzone l'accordo giusto. Impossibile, lo sai.
E la gita a San Luca a Bologna, con te che mi riempivi da testa a piedi di margherite. La spiaggia al Lido ed io che ti facevo bere litri d'acqua salata.
E la rabbia per i tanti stronzi che incontravamo sulla nostra strada quando da ragazzini abbiamo cominciato a crescere, scoprendo il sesso e l'amore.
Poi la tua partenza, il lavoro a Milano. Stavamo diventando grandi, eravamo pieni di sogni e speranze. Io e te lanciati a costruirci una carriera. Mi chiamavi Mimì, lo facevate solo tu e mia madre. La chiamo ancora con il soprannome che le hai dato tu, la Presina.
Tu combinavi i tuoi casini amorosi, io qui mi incasinavo alla grande con gli uomini che ho amato o creduto di amare. Poi un giorno, te ne sei andato. Era il 14 febbraio, San Valentino, ed io da allora non riesco a non pensare che per me la festa dell'amore è il giorno della tua perdita.
Il tempo ha messo a posto le cose. La rabbia per la tua partenza ha finito con il lasciare il posto alla pace, al sorriso. Se te ne sei andato non è colpa nè tua, nè mia o di altri.
E soprattutto andarsene non significa morire.
Sei morto solo se nessuno si ricorda più di te.
Mi vien da pensare che qualche volta, sulla tua spiaggia caraibica, mentre ti fai massaggiar la schiena e commenti, sardonico, la bellezza di un bicipite, forse avrai pensato di esser stato dimenticato. Non preoccuparti, continua a divertirti ed organizzare feste grandiose. Qui, a noi, a me, basta un acuto di Mina, una fetta di anguria, il suono di un clarinetto, il poster dei Duran Duran, il film "Philadelphia", il "Siddharta" di Hermann Hesse e mille altre piccole cose per tener vivo in me il piacere del tuo sorriso.

Un bacio e non ubriacarti troppo.

Scegli la tua domenica

Libertà assoluta
lo sbadiglio della domenica mattina
Il sorriso davanti allo specchio
Il profumo del caffè e del pane caldo
Il silenzio che diventa musica.

Libertà desiderata
il giusto riposo dopo tanta fatica
La pace del corpo
I bambini in strada che giocano
Il rumore degli uccelli.

Libertà costretta.
Tutto perfetto attorno a me,
Tranne il fatto che tu non ci sei.
E non ci sarai.
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