Fatacarabina

Fatacarabina

venerdì 31 ottobre 2008

Flash

Il valore della protesta, il diritto di alzare la testa e dire che una cosa non è giusta spesso te la ritrovi trasmessa come un gene dai tuoi genitori. Ho alcuni flash incisi dentro di me, come marchi a fuoco sulla pelle.
Io bambina che dormo nel lettone di mamma e piango perché mi manca papà.
Riuscivo a dormire bene solo con lui, quando mi teneva a cavallo del suo braccio. Ma in quei giorni, era il 1971 lui a casa non arrivò per settimane, stava occupando _ lo capii anni dopo _ la sua fabbrica, la Sava di Marghera, per protestare contro la chiusura. Erano gli anni in cui la polizia sparava per la prima volta a Porto Marghera contro gli operai. Erano anni difficili, mio padre non tornò a casa per giorni e mia madre prendeva la bici e gli portava da mangiare. Passava il sacchetto con il pranzo attraverso le inferriate del cancello.
Io non capivo allora.
Anni dopo, l'abbraccio più forte con mio padre, quando oramai avevo capito il suo impegno nella politica, avvenne a 45 metri d'altezza. Era il 1998, la fabbrica stava chiudendo a causa della crisi dell'alluminio. Venni a sapere che c'era una emergenza nella fabbrica occupata. Ero con un amico operatore televisivo. Puntammo l'obiettivo sulla fabbrica al di là di uno dei canali industriali e vidi sul tetto del silos mio padre. Pensai che era lui l'uomo, che, disperato per la perdita del posto di lavoro, voleva lanciarsi nel vuoto. Una volante della polizia venne a cercarmi, chiedevano di me in fabbrica. In lacrime entrai nello stabilimento e quei minuti dentro l'ascensore per salire i 45 metri del silos, li passai a piangere. All'improvviso la porta si aprì e vidi mio padre. La faccia dura, arrabbiata. Portava una corda legata al petto, e quella corda terminava oltre il parapetto, dietro le sue spalle. Si spostò per farmi vedere l'uomo che urlava aggrappato al parapetto, con sotto solo il vuoto. Passai due ore a parlargli per convincerlo a lasciar perdere, la sua vita valeva di più di una fabbrica di alluminio in fallimento. Mio padre al mio fianco. Se quell'uomo cadeva, mio padre cadeva. Quell'uomo si era aggrappato al mio braccio; se cadeva lui cadevo pure io.
Alla fine, riuscimmo a convincerlo a lasciar perdere. E una volta , superata l'emergenza, mi ritrovai abbracciata a mio padre, come mai avevamo fatto fino ad allora. Lui, uomo di poche parole e di tanto impegno politico, non riteneva che i gesti d'affetto forgiassero il carattere. Quel giorno andò diversamente: eravamo così felici che baciammo ed abbracciamo anche un vecchio commissario di polizia che era stato con noi per tutto il tempo, ad ascoltare quell'uomo disperato e i nostri discorsi di conforto.
L'ultimo flash mi porta a mia madre. Siamo negli anni Duemila. Mia madre all'epoca puliva gli uffici di una nota azienda. Colpa di uno dei mali d'Italia, gli appalti al massimo ribasso, iniziò lo sciopero delle ramazze. Uffici sporchi da giorni, le donne a picchettare l'ingresso con i turni nella tenda dell'occupazione. Per non perdere il posto di lavoro. E un gruppo di crumiri, gente che aveva bisogno di lavorare allo stesso modo di quelle donne, parcheggiati dentro un bus in attesa di entrare a pulire, approfittando di un momento di stanca. E io dalle 5 del mattino a partecipare al picchetto, per vigilare sul comportamento delle forze dell'ordine. Alle 8 del mattino dopo una settimana di occupazione, partì la carica dei poliziotti. Un amico mi aveva avvisato. "Porta via tua madre che carichiamo". Non potevo rispondere altro: "Spostala tu, se ce la fai". Partì la carica, con tanto di cesoie a tagliare le catene che le donne portavano come bracciali in segno di protesta. Mi sentii gelare, corsi verso i poliziotti, urlando loro di fermarsi. Avevo paura. Mia madre teneva in mano il mio cellulare, urlava, bestemmiava. Chiamò i carabinieri per denunciare l'aggressione da parte dei poliziotti. Finì in un modo che ancora oggi mi da i brividi: i crumiri scortati a piedi dai poliziotti si allontanavano dagli uffici, con un cordone di carabinieri attorno, e decine di donne inferocite che gli sputavano contro, che lanciavano uova. Mia madre difendeva il suo posto di lavoro con i denti, come mio padre trent'anni prima difendeva il suo, occupando una fabbrica. O aiutando un povero compagno di lavoro disperato a non suicidarsi. Per la cronaca, oggi quell'operaio vota Lega. Mio padre, dopo la morte del Pci e il tracollo di Rifondazione parla sempre meno. Ma i miei genitori mi hanno insegnato che se combatti per un motivo giusto, la minaccia di una denuncia, oggi come allora, non può farti paura.
Perchè è nel tuo Dna combattere per ciò che credi.

giovedì 30 ottobre 2008

Il vento

Adoro il vento.
Soffia bizzarro attorno a me
e gioca con i miei capelli.
Lo accolgo in kimono
sulla terrazza, come un amante
a lungo atteso.
Ne ascolto i movimenti
impazziti, ne cerco le traiettorie.
Ogni volta mi spiazza
e mi lascia stupita.
Arriva su di me, all'improvviso.
Mi solletica, mi sfiora
e sussurra al mio
orecchio.
Ed io ascolto
e sorrido.
Rabbrividisco
e sorrido.
Poi si allontana, pronto
a giocare di nuovo.
Lui sa che non posso
farne a meno.

mercoledì 29 ottobre 2008

L'uomo perfetto?

L’uomo perfetto? Probabilmente esiste. Ma non arriva su un cavallo bianco e non ha la calzamaglia aderente azzurrina. Se lo vedete arrivare conciato così, non è per voi, ma per uno dei vostri amici che ha tirato fuori il cavallo dal recinto. E magari sotto la tunichetta, rischiate di trovarci solo le tracce di una sfrenata attività di depilazione.

L’uomo perfetto magari lo trovate al bar, è quello con lo sguardo che a voi par quello di un branzino rimasto troppo nel ghiaccio. Magari vi risponde grugnendo, vabbé è un orso, neanche noi fossimo tutte la Z Jones, ma quel tipo quando vi sorride vi fa girare prepotentemente le budella, dentro. E vi fa venir fame…

lunedì 27 ottobre 2008

Stanchezza

Sono troppo stanca, se parlassi ora direi una marea di cavolate.
Chiederei cose che non è bene chiedere.
Vorrei cose che non è opportuno volere.
Meglio dormire. Si fanno sicuramente meno danni.

Amiche nel web

La donna ormonale non è colei che vive in balìa del suo ciclo mestruale ma quella che segue le sue passioni, come il condor che sa sfruttare le correnti ascensionali per spostarsi più velocemente...
Quella che non ha bisogno dell'assorbente giusto per lanciarsi con il paracadute...
Non è la donna che attende impassibile che gli caschi addosso un uomo, ma quella che sa essere leonessa se crede in un rapporto.
Che lavora , e tanto, ma trova sempre il tempo per giocare.
E' la donna che sa essere birichina, femme fatale, e sa vedersi con ironia.
Che ama il suo corpo e quello degli uomini che desidera e lo dice, lo scrive. Ognuna a modo suo.

Con alcune donne incontrate nel web, il definirci donna ormonale è diventato anche un modo per spiegare come la vita non ci lasci mai indifferenti. Che ogni emozione ci colpisce al petto. Le affrontiamo queste emozioni. C'è chi le capisce velocemente, chi ha bisogno di maggiore analisi per sentirsi poi più lieve. Ed è bello il confronto, lo scherzo come il sostegno; il consiglio come lo sfogo. Queste belle donne ormonali oggi le considero amiche anche se ancora non le ho conosciute di persona.
Anche questo è un bel modo di vivere nel web 2.0.

Ancelle 2.0, puah!

Da un pochino mi muovo nel web e ho trovato un mondo al femminile decisamente interessante. Altro che ancelle 2.0! Nella rete ci sono donne che masticano, passatemi il termine, di tecnologia al pari degli uomini. Che producono idee, contenuti, storie, poesie. Ma oltre all'impegno sanno tirar fuori un sano cazzeggio e giocano con loro stesse ben più dei colleghi maschi. Soprattutto sanno guardarsi spesso con una tale dose di auto-ironia che apre il cuore e fa sperare davvero che quella che veniva chiamata l' altra metà del cielo sia oggi pronta per un ruolo da protagonista.
In realtà pronte lo siamo da anni ma attraverso la Rete spero che il concetto di pari opportunità passi davvero. Stavolta.
Servirebbe piuttosto un pizzico di furbizia in più , un sostegno tra le donne e i loro blog per rilanciare idee, contenuti, spunti. E far emergere la loro grande vitalità.
Che in questa Italia triste e amorale oggi potrebbe diventare una grande risorsa di rinnovamento. Per tutti, uomini e donne.

domenica 26 ottobre 2008

narcisi


grazie ad http://friendfeed.com/simpl
finisco nel giochetto narcisistico
E' un divertimento e io non resisto
perchè se non si gioca...

sabato 25 ottobre 2008

La voglia

Scivolami addosso
e scopri quel
che ho da dirti.
In silenzio
senza fretta
senza paura.
Lasciami sentire
quale è il tuo sapore.
Prendi la mia mano
e fammi scivolare con te.

giovedì 23 ottobre 2008

Il marchio

Elena si mise davanti allo specchio. Il suo sguardo riflesso, stanco, dopo la notte insonne, le lanciò un timido sorriso. Lei non risposte neanche con un cenno, gli occhi arrossati e lucidi, la mente annebbiata dopo una notte di vino e rum. Si sedette sulla tazza del water e si accorse solo allora del silenzio che invadeva la casa. Non c'era nessuno con lei a smaltire il post-sbornia. Era quello il momento più difficile, il mattino dopo.
Lui se n'era andato, lo faceva sempre. Non era una novità, ma Elena si sentiva infastidita: la mattina, dopo ogni sua partenza, sentiva la sua assenza. E un leggero nervosismo le saliva dentro, dall'interno cosce fino al petto.
Bastava dirlo.
Ma non riusciva a dire. Una parola sola poteva bastare, pensò. Resta.
Niente, non la sapeva dire quella parola, non le usciva dalla bocca. La pronunciava solo dentro di se quando lui oramai era lontano. A vivere la sua vita.
Poco male, si disse Elena , per scacciare quel pensiero fastidioso. Faccio quello che voglio, conduco io la mia vita, decido io per me. E comando. Ho un lavoro importante, una carriera in ascesa. Cosa mi serve un compagno? Se lo ripeteva anche stavolta, seduta sulla tazza del water.
Amore? No tra loro era solo sesso.
Lui non chiedeva di più e a lei andava bene. Nessun coinvolgimento emotivo, solo divertimento.
Elena si lasciava andare, si divertiva. Lui non doveva costringerla, doveva solo sussurrarle all'orecchio e sorridere, come faceva ogni volta che la voleva. E lei, docile, si trasformava in quel che di giorno non era mai. Remissiva.
Elena si alzò e si diresse di nuovo verso lo specchio. Stavolta si accorse subito del segno, un morso netto sotto il seno. Il solco lasciato dai denti di lui le avevano arrossato la pelle. Si potevano anche contarli i denti che avevano lasciato quel marchio.
Come il morso di un lupo. Elena si concesse un sorriso, mentre ammirava quella meraviglia, la sfiorava. Poteva ancora sentire la forza di quella bocca. E ricordava:lui l'aveva attirata a se e aveva stretto il seno tra le labbra come se volesse mangiarla.
E lei , adesso, allo specchio si diceva che avrebbe voluto volentieri esser finita a brandelli dentro il suo stomaco, a farsi sciogliere dai suoi succhi gastrici, diventando nutrimento per lui.
Assaggiata, addentata, masticata, ingoiata.
Un bel modo per sparire.
Svanire dentro chi ti desidera, per stare sempre con lui.
Anche Elena, pensò tra se, non era stata da meno; anche lei gli aveva addentato il braccio, con foga. Non aveva urlato. E Elena ricordando, si congratulò con se stessa. Stava imparando, lui sarebbe stato orgoglioso di lei. Era stata brava. Si lasciava andare, senza temere. Si lasciava godere senza tirarsi indietro.

La sveglia si mise a suonare. Erano le nove. Elena si scosse di colpo, si guardò attorno. Rischiava di far tardi, di non arrivare in ufficio in tempo. Si vestì velocemente mentre il caffè borbottava dentro la moka sul fuoco. Si sistemò i capelli, indossò la giacca. Si sfiorò lievemente il seno, con il piacere di esser l'unica a sapere che sotto la giacca, la camicia, il reggiseno c'era il suo segreto.
Il dolore al minimo tocco ritornava alla mente, come un piacere silenzioso. Penetrante come una fitta.
Arrivata in ufficio, Elena sistemò la borsa nell'armadietto, girò attorno alla scrivania, controllò con il dito che la scrivania fosse pulita. Al solito non andava bene. Elena aprì un cassetto, tirò fuori una salvietta e dell'alcool e pulì di nuovo il piano di lavoro. Doveva esser perfettamente pulita la sua scrivania, lo diceva ogni volta a quella imbecille della donna delle pulizie.
Imprecando, si tolse la giacca, inforcò gli occhiali e si mise a leggere il giornale.
Poi venne distratta da un paio di colpetti alla porta. Un grugnito acido di Elena era il segnale per entrare. Lo sapevano tutti in ufficio.
Paolo, il suo segretario, entrò tenendo tra le mani il vassoio. Sopra una tazza di caffè fumante e due bustine di zucchero di canna. Lei gli lanciò un sorriso tirato, lui replicò con un buongiorno bofonchiato alla meno peggio.
Paolo sistemò il vassoio e si fermò davanti ad Elena, in attesa delle indicazioni della giornata.
Ma Elena, sollevato il viso dal giornale, restò stupefatta.
Paolo la guardava e sorrideva, con quella smorfia del viso che mai aveva aveva osato mostrare in ufficio, nel regno di Elena. Mai si era permesso di guardarla così fuori dal letto.
La stava evidentemente sfidando.
Ma in ufficio non si poteva giocare, questo Paolo non poteva dimenticarlo.
La mano di Elena istintivamente andò a sfiorare il seno. Il morso sotto la camicetta pulsava, le faceva male come se l'attacco fosse appena avvenuto.
Paolo sollevò la manica della camicia e si strofinò il braccio.
Poi tolse la mano, facendo in modo che Elena vedesse. Un morso, netto, con i segni dei denti sulla pelle arrossata.
Il suo morso.
Elena sorrise. Ora avevano un marchio, un legame tutto loro.

Raissa

«Anche a Raissa, città triste, corre un filo invisibile che allaccia un essere vivente a un altro per un attimo e si disfa, poi torna a tendersi tra punti in movimento disegnando nuove rapide figure cosicché a ogni secondo la città infelice contiene una città felice che nemmeno sa d'esistere». (Italo Calvino)


Stanotte ho ammazzato D'Artagnan
e le sue guardie.
Ho rotto il muro della fortezza.
Avevo chiuso le vecchie tensioni
nelle prigioni sotterranee
ma le loro voci continuavano
a sussurrare.
Fastidiose. Malevole.

E allora, si deve combattere
ma con strumenti diversi.

Niente parate, mi devo lasciar colpire.

Si tolgano le difese.
Via le armi, si aprano le porte.
Passi l'aria a far pulizie delle
scorie negative.
Tutti fuori di qui!

Lasciatemi con me
a non aver paura
del nuovo che avanza.

lunedì 20 ottobre 2008

Non sono

Non sono scaltra: non riesco ad essere come quelle donne che collezionano uomini come trofei.Non tengono le teste impagliate sopra il caminetto, ma ricordano i loro spasimanti
grazie alla collezione di regali, spesso lussuosi, che tengono in cassetto.

Non sono intelligente:
non so nascondere le mie emozioni, la mia curiosità
e fingere indifferenza quando conosco qualcuno che mi smuove dentro. Se provo
curiosità e desiderio lo dico.

Non sono furba: non riesco a mettermi la maschera giusta per ogni circostanza
pur di apparire socialmente accettabile.

Non sono manipolatrice: se mi accorgo che non vengo accettata per come sono, non esiste finzione che tenga, sotterfugio, giochetto. Batto in ritirata.

Non sono silenziosa: se qualcosa o qualcuno mi piace e mi soddisfa, divento come
un arcoiris ed è impossibile per me nascondere qualsiasi emozione. Anche in silenzio, si legge la
mia soddisfazione.

Non sono dipendente: non riesco a chiedere che qualcuno mi aiuti a pagare quel che voglio. Me lo compro da sola. Non si compra la mia devozione con un regalo.

Non sono voltagabbana: ho i miei ideali di vita e li perseguo fino in fondo.

Non sono moderna: credo troppo nel potere dell'amore

Non sono fredda:: sono convinta che esista un collegamento diretto tra cervello, pancia e vagina che rende ogni donna una sorta di wonder woman.

Non sono falsa: non racconto bugie per il semplice motivo che non so dirle.

Non sono misurata: come può esserlo chi adora l'autoironia ed è convinto che una risata seppellirà tutti i nostri dolori?

domenica 19 ottobre 2008

Una domenica per sperare

Oggi pomeriggio, in un ritaglio di libertà dal lavoro, sono corsa in piazza Ferretto. Non volevo perdermi l'evento: l'incontro tra i residenti della terraferma veneziana e le comunità straniere che qui vivono e lavorano. Ventitremila persone arrivate dall'Oriente, dai Balcani, dalla Cina o dalla Macedonia che a Mestre lavorano in alberghi, ristoranti, fabbriche come i cantieri della Fincantieri oppure fanno le badanti, accudendo gli anziani soli.
"Voi non ci vedete, ma noi siamo tra voi tutti i giorni", raccontava un portavoce della comunità del Bangladesh. E c'è da credergli, perchè oggi pomeriggio gli immigrati di Mestre, i mestrini del mondo, sono stati i padroni di piazza Ferretto dove hanno mostrato le loro tradizioni e la loro cultura in decine di stand e banchetti. E centinaia di mestrini per la prima volta si sono accorti di loro, hanno visto e capito che immigrato non è per forza sinonimo di irregolare o peggio di delinquente. Che la mamma bengalese quando segue lo spettacolo della figlioletta non è diversa dalla mamma mestrina che freme per la recita del figlio.
Poi siamo andati tutti al teatro della nostra città, il Toniolo, con i 700 posti che sono andati esauriti in breve tempo, per uno spettacolo con cui le comunità straniere si sono presentate, raccontandosi.
Sono arrivata a teatro da un ingresso laterale, per evitare la ressa.
Da una finestra,due bambine macedoni in abiti tradizionali, coloratissimi, mi hanno salutato con due splendidi sorrisi.
Salendo le scale mi sono trovata davanti ad una ventina di donne e ragazze thailandesi. Bellissime e sorridenti, mi è scappato involontariamente un "quanto siete carucce". E giù risate. Sorrisi anche al danzatore bengalese che faticava ad inserire la caviglia in un grosso anello d'argento. L'ho visto poco dopo danzare, orgoglioso e sinuoso sul palco del Toniolo ed ho faticato ad immaginarmelo durante il giorno a lavar piatti nel retro di un ristorante del centro storico veneziano. Poi ho incontrato un imprenditore edile, macedone. In Italia dal 1991, scappato dalla guerra nei Balcani, è arrivato a Mestre ed ora si occupa di restauri, garantisce lavoro stabile a trenta connazionali e partecipa alle gare d'appalto pubbliche, con lo stesso prezziario _ mi spiega _ dei concorrenti italiani. Un ex immigrato clandestino oggi è un imprenditore con giacca e cravatta eleganti, il taglio di capelli all'ultima moda.
Ho salutato una ragazza cinese laureata a Ca' Foscari e che lavora in una multinazionale. E un afghano che sogna di organizzare eventi culturali per spiegarci finalmente come stanno le cose nel suo paese, dove i nostri soldati sono andati in missione.
Mi sono sentita non solo mestrina ma anche cittadina del mondo, io che il mondo per fortuna posso andarlo a vedere viaggiando. Spero che anche i miei concittadini si siano sentiti non parte di un microcosmo nel profondo Nordest ma di un mondo colorato, dove la diversità non è divisione ma condivisione.
Di sicuro i bambini, quelli che qualcuno vorrebbe suddividere in classi differenziate, questo lo hanno già capito benissimo.

venerdì 17 ottobre 2008

Avete presente...

Avete presente quella sensazione
sì, è una sensazione
e pure bella forte
che hai voglia di qualcosa
e non sai cosa
ma la senti,
quella sensazione,
quella voglia,
che pare forte
come un bisogno
ma se fosse stato
un bisogno
tu l'avresti messo in conto
ed invece arriva
improvviso
sì, come uno schiaffo,
e tu ti ritrovi
con questa voglia
a cui non sai dare
una motivazione,
manco uno straccio di perché convinto
e resti lì
a pensarci.
Cerchi di non farci caso,
cerchi un cd e ti metti a ballare
e più balli, dici, non ci penso
e invece ci pensi.
Saltelli e la voglia è lì.
Corri in cucina a bere un bicchier d'acqua
e lei ti sorride dal frigo.
Vai a letto e lei beffarda
ti accarezza la fronte.

Maledetta curiosità...

Maschi e femmine

Se uno mi dice che sono femmina, oltre che donna, non ci resto affatto male, anzi un pochino la cosa mi inorgoglisce. Ma mi sono accorta con una battuta che voleva solo essere divertente ( su Friendfeed) che taluni uomini non amano sentirsi chiamare maschi...
In soccorso arrivano, come sempre nella mia vita, amiche come Simple (www.sancla.wordpress.com) con un decalogo dell'uguaglianza tra uomini e donne che mi riempie di felicità. Perchè una risata, ne sono convinta, riesce a seppellire ogni difficoltà.
Lo ricopio qui, affinchè resti....


Decalogo dell’uguaglianza:

1. Tutti i maschi dovranno avere le paturnie una volta al mese senza bisogno di giustificarsi. Se una donna dovesse insistere per conoscere il motivo dello stato d’animo, lui dovrà rispondere: “non ho niente!”

2. Ogni donna dovrà verificare che i propri genitali siano al loro posto almeno una volta al giorno.

3. I maschi saranno costretti a rifiutarsi di fare sesso senza causa apparente ogni tanto, in alternativa useranno la scusa del mal di testa.

4. Le donne impareranno a leggere le cartine stradali senza prenderle al contrario e i maschi impareranno a ripiegarle.

5. I maschi ammetteranno senza fiatare che un altro maschio è figo, ma aggiungeranno subito dopo “ma porta dei pantaloni improponibili”.

6. Le donne capiranno che se non hai un orgasmo un rapporto sessuale non è finito, mentre i maschi accetteranno che è auspicabile ma non è imprescindibile avere un orgasmo in ogni santa volta.

7 Ogni donna si sentirà attratta dal 90% della popolazione maschile.

8 I maschi si depileranno l’inguine ogni 10/15 giorni per sentirsi più sicuri di loro stessi.

9. Le donne si chiameranno l’un l’altra con nomignoli offensivi, trovando la cosa estremamente naturale e divertente.

10. Uomini e donne avranno pari doveri e dignità in ambito lavorativo. Ciò consentirà finalmente agli uomini di indossare tacchi a spillo, minigonne e scolature in ufficio.

Naturalmente ogni aggiunta, chiarimento e/o integrazione al presente decalogo è benaccetto.

mercoledì 15 ottobre 2008

Lost in pasticceria

Lasciami senza fiato
tramortiscimi con una dose massiccia di cose buone
Come persa in una pasticceria
metti alla prova i miei sensi
e fammi ricercare
i tuoi gusti nuovi.

martedì 14 ottobre 2008

Oggi sciopero

Le giornate oscure mica le prevedi, non puoi segnarle sul calendario e prenderti un giorno di ferie, per gestirle con sufficiente libertà.
Le giornate oscure arrivano quando vogliono loro, magari quando sei anche super-impegnata nel guadagnarti la pagnotta. Arrivano quando pensi che vada tutto bene. E colpiscono durissimo, lasciandoti rintronata.
Oggi sciopero quindi, è la mia giornata oscura.
Con questa emorragia che mi invade il cervello di pensieri pericolosi, l'unica cosa da fare è praticare il silenzio.

La porta

Hai bussato alla mia porta
molto tardi.
Io dormivo, tu volevi sentire.
Io parlavo, tu volevi farmi sentire.
Io cercavo di capire e tu avevi solo sete.
Ti ho dato dell'acqua.
Non è tardi per dissetarti,
è tardi per farti sentire e risentire.
Hai sbagliato porta.

lunedì 13 ottobre 2008

La date una mano?

Ci siete passati tutti, una volta o spesso.Avete imprecato in coda in piena estate. Adesso sarebbe bello che voi deste una mano a noi, che a ridosso della tangenziale di Mestre viviamo. Che ne respiriamo i miasmi da decenni, o peggio, abbiamo le case a meno di 100 metri e l’inquinamento ce l’abbiamo attaccato come una cozza alle finestre di casa .

Una autostrada che taglia in due una città. Che dite, voi, ce la mettete una firma?

Qui si spiegano i motivi dell’iniziativa

http://www.cocit.org/cocit/archivio/declassamento/declassarevolantino.pdf

e qui c’è il modulo di raccolta firme

http://www.cocit.org/cocit/archivio/declassamento/declassare_firme.pdf

domenica 12 ottobre 2008

Dubbi

C'è chi mi dice che è meglio star fermi per non far passi indietro. Che è meglio attendere. Che è giusto aspettare il momento giusto. Come se tutto dipendesse dagli altri e non da te.
E se tu senti che bisogna invece agire, muoversi, avanzare e non restare in trincea?
Se senti dentro di te una voglia che ti spinge a scoprire quel che dovresti invece di attendere che ti venga svelato?
La mia vita non dipende dalle azioni altrui ma dalle mie. Di solito corro senza timore a prendere quello di cui ho bisogno.

E se invece arrivo e trovo chiusa la porta del negozio delle emozioni?

Potrei sempre lasciare un biglietto per il titolare: "Effettua consegne a domicilio? Mi recapita una botte di passione e un vaso da cinque chili di coccole al cioccolato fondente?".

venerdì 10 ottobre 2008

Cosa pensano le donne

Perchè non mi inviti a cena? = Se devo far tutto io o sei un bambino o non ti interesso.

Andiamo fuori a cena? = Cosa aspetti a baciarmi?

Ciao, ti disturbo? = Dimmi che ti mancavo o sei un piccolo stronzetto

Sì, mi piace che vuoi far carriera: = Si, ma adesso smettila e vieni qui a coccolarmi

Venerdì non ci si vede? Hai il calcetto ? = Preferisci correre dietro ad un pallone che far l'amore con me

Tesoro, domani pulisci tu il bagno = Così impari a pulire quel che sporchi.

Ti piace la cenetta a sorpresa che ti ho preparato? = Vediamo se preferisci la partita in tv o la mia arte culinaria

Sì , le tue foto da piccolo sono bellissime = Ma quando facciamo l'amore?

Hai una bellissima collezione di bicchieri da birra = Ma quando facciamo l'amore?

Baciarti in auto sotto casa non ha prezzo = Sì ma non hai speso un euro di benzina e manco mi inviti a salire.

Posso lasciare lo spazzolino da denti nel tuo bagno? = Quando ti decidi a sposarmi?

Sì, è vero quella commessa è carina = Ha i denti storti e tu dovresti essere solo accecato dalla mia bellezza

Non ti sei accorto del mio nuovo taglio di capelli? = Ecco, cento euro spesi per piacerti e tu sei cieco come una talpa

Sì , caro esci pure con le tue amiche! = Chi sono queste troie?

martedì 7 ottobre 2008

L'ultimo incontro

“Avevamo deciso di concederci una ultima cena, prima di lasciarci”. Francesca si girò verso Luca, fissandolo negli occhi e sorridendogli.
Lui fissava la sua maglietta nera, scollata.
“Certo, che hai ancora le tette più belle che abbia mai visto”.
Lei sorrise, erano mesi che non pensava a lui senza un mugugno, una smorfia di dolore.
Francesca si ritrovò stupita a sorridere a colui che le aveva regalato una felicità assoluta per dieci anni ma nel contempo gli aveva mandato in pappa il cervello, con la sua eterna incertezza nei sentimenti.
Si mise a ridere, pensando che poteva provocarlo senza più star male.
Luca sghignazzava, era contento di aver ritrovato per un attimo l’intesa che per lunghissimo tempo era stata la miccia della loro attrazione. Aveva temuto una reazione negativa di Francesca, nonostante fosse stata proprio lei a ricordare che si erano promessi di lasciarsi nel migliore dei modi, facendo l’amore, senza pensieri. E poi non si sarebbero più visti.
A tranquillizzarlo fu la mano di Francesca che senza pensarci, ridendo, finì con il posarsi sul suo interno coscia, accarezzandolo. Lui sapeva perfettamente che quello era stato in passato uno dei loro modi di dirsi ti voglio, senza parole.
Da quando si erano lasciati era passato oramai un anno. Si erano lasciati male, tradendo la promessa.
Un sms di Luca aveva allontanato bruscamente Francesca , la sua amante da dieci anni. “ Non ce la faccio più”, le aveva scritto una mattina.
Erano bastate cinque parole per distruggere tutto.
In quel modo aveva allontanato da sé la donna che amava davvero, ma non così tanto da stravolgere la sua vita, lasciare la casa in cui vive ancora e la compagna che lo aveva accolto dopo la prima separazione come un fuggitivo, regalandogli la tranquillità agognata.
Luca sapeva di aver usato le parole perfette, la chiave giusta per uscire da quel dolore che oramai lo rodeva dentro.
Francesca gli aveva sempre detto di non tollerare di esser di disturbo, un peso nella sua vita. E così accadde: lei all’inizio gli scaricò addosso quintali di fiele avvelenato, poi non lo cercò più. A parte qualche sms di circostanza per sapere come andavano le cose, una volta uno, una volta l’altra. Ma niente incontri, niente sorrisi, niente colloqui.
Un anno dopo si ritrovavano al bancone di un pub, con due spritz davanti ed una strana serenità tra loro. Lui si stupì di rivederla bella, dimagrita, truccata, ben vestita. Lei si stupì che non fosse cambiato, salve qualche capello grigio in più.
Il discorso era finito presto sulla loro storia.
Lei gli aveva appena raccontato della storiella finita male con un ragazzo spagnolo. Che l’aveva conosciuta, cercata, desiderata, e che le aveva detto:” Ti sposo”.
Per Francesca non era una promessa importante, ma era una novità. Fece bene però a non fidarsi troppo, perché nel giro di un paio di mesi capì che la proposta non veniva dal cuore ma da un momento di afasia provocato dalla cocaina, la sua unica vera amante, di cui Rafael, così si chiamava l’intruso, non faceva a meno quando era a Madrid.
Francesca , incuriosita da una richiesta di un prestito di 300 euro, come suo stile aveva indagato scoprendo l’amante chimica.
E così dopo due mesi di amore a distanza, Francesca era di nuovo sola.
Ma stava bene. E Luca non sapeva che la sua ex amante aveva, in quell'anno di separazione , non solo aveva frequentato un altro , ma aveva reimparato ad amarsi. Si voleva bene, Francesca. Dopo che si era annullata per cercare di far funzionare un rapporto impossibile, che avrebbe regalato felicità solo se non ci fossero state di mezzo una moglie, vacanze separate, amplessi non seguiti dalla serenità della successiva quiete fino al mattino seguente.
Luca non sapeva che ogni volta che diceva a Francesca che preferiva la tranquillità di un rapporto di coppia non esaltante, allo sconvolgimento di una vita di gioia vera con lei, le procurava un livello di ansia che ne stravolgeva, da dentro, pensieri, emozioni ed obiettivi. Non sapeva che ogni volta che la guardava e lodava la sua indipendenza, la sua intelligenza, lei in realtà voleva solo stare con lui su un divano a farsi massaggiare i piedi, accarezzare le sue cosce rocciose, sentire il suo pene insinuarsi dentro di lei e vibrare al suo stesso ritmo.
E che l’intelligenza, l’indipendenza, l’impegno, lo humour alla fine erano diventati un niente se lui non la voleva.
Anche Luca quell’anno aveva sofferto. Il suo ego bruciava al pensiero che Francesca potesse anche solo aver pensato, come aveva fatto, che lui avesse trovato una nuova amante. E soprattutto lei gli mancava, a volte nel sonno aveva pronunciato il suo nome. Ne era convinto, ma sua moglie non si era mai accorta di nulla. Lei pensava andasse tutto bene e non sentiva neanche bisogno di dirgli qualche volta un “ ti amo”, tanto lui era di sua proprietà. E comunque mai aveva detto nulla.
Quella di Francesca era stata in realtà una provocazione, il pensare all’amante in seconda, ma Luca non lo sapeva. E aveva sofferto al pensiero di non poter più toccare quel corpo che gli piaceva tanto, quei seni che adorava morsicare in continuazione. La amava, a modo suo, certo. Ma era stato incapace di dimostrarlo al cento per cento e soprattutto era stato incapace di scegliere. Ed odiava che Francesca pensasse di esser vittima di un tradimento.
Tra loro due, c’era una differenza sostanziale. Lei voleva vivere, lui si accontentava di sopravvivere. Luca era andato avanti con quella storia, clandestina, finché la sensazione di distruggere la persona che gli dava felicità, ogni giorno, non lo aveva costretto all’ultimo, giusto, atto della sua incapacità di agire.
Tirarsi indietro, scappare via. Rinunciare. Così lei si sarebbe cercata altrove una vera felicità.

Francesca per una settimana tentò di resistergli. Gli mandava sms adirati, poi a casa si ingozzava, lontano da occhi indiscreti di cioccolatini, maledicendo l’amore della vita finito male. La mattina dopo gli mandava ancora sms pieni di veleno e cattiverie.
Poi all’improvviso Francesca si spense, come una candela che un colpo di vento rende inattiva. E non si fece più sentire.

Accadde tutto una sera; dopo aver fatto fuori un sacchetto di patatine, due bistecche di maiale, un contorno di avocado e pomodori, e per finire una vaschetta di gelato, Francesca andò davanti allo specchio.
E si vide: ingrassata, la pelle grigia, senza trucco, con una ruga che le solcava la fronte e le trasformava il volto in una maschera triste. Si riconobbe. Ed ebbe paura. Di sé e del suo dolore. Si sentì svenire, il petto le faceva male, sentiva il battito del cuore in accelerazione percuoterle il collo.
Era in preda al suo primo solitario attacco di panico.
Le lacrime cominciarono a scendere come un torrente in piena, allagandole faccia, petto e gambe. Rimase fino al mattino in un angolo della cucina, con le gambe al petto, la speranza che la disperazione passasse in fretta e le tornasse il respiro. Francesca capì che avrebbe finito con l’invecchiare lì, in quell’angolo della cucina, odiando sé stessa per non esser stata capace di farsi scegliere dall’unica persona a cui voleva appartenere.
Dopo una notte insonne, la mattina seguente decise di lavorare per ritrovarsi. Non fu facile, le servì tanto aiuto, ma un anno dopo e dopo la parentesi di un calesse amoroso ( l’avventura con Rafael), si era ritrovata. Non più sicura, ma serena nel vivere la sua condizione di quarantenne single non come una costrizione alla solitudine.
Luca notò il cambiamento e pensò dentro di sé, che ricominciare con lei era quello che voleva. Del resto ci aveva pensato tante volte.
Francesca lo intuì al volo, e dentro di sé, se la rideva. Lo aveva provocato ricordandogli quella promessa che si erano fatti a letto, dopo aver pianto abbracciati dopo un orgasmo tanto forte da provocare ad entrambi una tremarella corporea durata quasi un’ora. Amanti tarantolati, si definirono.

Lui la voleva ora, lì sul seggiolino del pub. Lei si era eccitata toccandogli la coscia granitica, ma era terrorizzata dal solo pensiero di ricascarci, alla fine.
Non dissero altro, raggiunsero l’auto di lei parcheggiata fuori dal pub.
Lei si appoggiò alla portiera, lui le sbarrò la strada piazzandosi davanti a lei, accerchiandola con le braccia.
“ Facciamolo subito, saltiamo anche la cena”. Lei rimase in silenzio, spostò il braccio di lui che le impediva di aprire la portiera dell’auto ed entrò. Lo guardò e gli fece cenno di salire.
Restarono cinque minuti buoni a fissarsi, in silenzio. Sorridendosi a vicenda. Lei gli accarezzava l’interno del ginocchio, lui sfiorava con il palmo della mano il suo seno destro, il suo preferito.
Si volevano, era chiaro. Ancora.
Si guardavano. Lui vide nei suoi occhi il guizzo frizzante che aveva conosciuto dieci anni fa in un bar.
Lei, lo sguardo accattivante che l’aveva conquistata in un attimo davanti ad un caffè.
Avvicinarono i volti come la calamita al ferro per il primo bacio post separazione.
Le labbra si sfiorarono, lievemente. Le bocche avevano sete uno dell’altra.
Poi il cellulare di Luca squillò, un improvviso rumore ad interrompere la quiete.
“Rispondi”, gli disse Francesca.
“Non voglio”, replicò Luca.
Il telefonino trillava e vibrava, fastidioso. Imperterrito, deciso a non smettere.
Alla fine Luca rispose. E Francesca sapeva perfettamente chi era.
“Devo andare, mi aspetta per cena”, gli disse dopo aver riattaccato.
“Sì, Lei ti aspetta, vai”.
“Starei qui se potessi, ma devo andare. Cerca di capirmi, devo sopravvivere”.
“ Sì, lo so. E devo dirti che va bene così: possiamo dare per rispettata la nostra promessa”, ribattè Francesca.
“No, voglio rivederti. Dobbiamo andare a cena”, si infervorò lui.
“Questa è l’ultima volta che ci vediamo _ attaccò Francesca _ ci desideriamo, certo, ma sarà una cosa breve. Finiremo con il farci male da soli, oltre che a vicenda. E io non mi farò mai più male per te. Se capita che ci rivediamo, ci sorridiamo e passiamo oltre. Va bene?”
Il tono di lei era così duro e deciso che Luca rimase senza parole e non potè dire altro se non un sommesso " Va bene". Non scherzava.
Luca le baciò la guancia e scese dall’auto. “ A modo mio ti ho sempre amata”.
“Anche io, ma non ho potuto dimostrarlo”, ribattè lei.
La portiera che sbatte, il silenzio, il profumo di Luca ancora nell’aria.
Francesca prese dalla borsa una sigaretta e la accese, la prima tirata fu lunga ed avida, il respiro successivo lento e rilassato. Quel buon odore stava sparendo in fretta, per fortuna.
Poi prese in mano il cellulare e compose un messaggio.

“Sta tornando a casa. Non mi rivedrà, stanne certa. E ora dimentica pure tu il mio numero di cellulare. E soprattutto il mio nome".








racconto scritto tra il 3 e il 6 ottobre 2008

domenica 5 ottobre 2008

elogio all'homo

Ti guardo e tu ti senti forse troppo osservato
Ma non riesco a non scrutarti.
E' vero.

Si, sei uno splendido uomo.
Il tuo sorriso aperto,
i tuoi capelli ci sono ancora e
non danno segno di incipiente calvizie
Mamma, come è vero.

Ci passerei le mani dentro alla tua capigliatura
lentamente
per sentire con il tocco delle dita che
forma ha il tuo cranio.
E sarebbe ancora tutto più vero.

Tu mi fissi e sorridi, lo sguardo
ora è sornione.
Le intuisci le mie intenzioni
ma lasci a me l'obbligo
di spiegarti che con te non farei la brava ragazza
Che, certo che è vero.

Dalla tua testa punterei diritta alle tue gambe
per saggiarne la muscolatura, addentandole delicatamente
E poi giocherei con il tuo ombelico,
comporrei anche una bella marcetta
degna di un imperatore.
Perché le tue gambe
sono splendide e massiccie pertiche
e io qui, come su un albero, ci starei benissimo.

Sono vera io, sei vero tu.
Combiniamo?
Ma tu non rispondi
hai sempre quel sorriso
da congelatore
e io mi scoccio.
Si è vero, mi stufo
di quel tuo sorriso ebete
da copertina.

sabato 4 ottobre 2008

Oggi, silenzio...

Oggi è una di quelle giornate in cui non avrei voglia di essere sempre io a pensare a farmi stare bene. Ci metto impegno: ogni mattina cerco di svegliarmi con un sorriso o trovare un motivo per sorridere. Mi do da fare, non chiedo, ma mi impegno. Nel lavoro come nella vita privata, ci metto del mio. Sono io a pensare sempre a me, a come farmi del bene, a procurarmi le coccole necessarie. E' la condizione necessaria per evitare che una vita solitaria si trasformi in solitudine. E' il mio vanto, sì, non lo nascondo.
Ma oggi, oggi avrei bisogno di un terapista emozionale, di qualcuno che si prendesse cura della mia serenità senza costringere sempre me a farlo.

Mi lascio forse troppo emozionare dalla vita e dalle persone, sono contenta di questa scelta ma non nascondo che più ti mostri per come sei, più è tutto complicato. E a volte pensi, che chiusi nel proprio guscio, si stia meglio, protetti perché nessuno ti giudica.
Non so se qualcuno capirà questa sensazione e francamente non me ne frega niente.
Il timore di venir resi una sottiletta, dallo schiacciasassi dell'altrui giudizio, c'è sempre. Specie qui.
Oggi non ho altro da dire.

venerdì 3 ottobre 2008

dedicato a

Sporgenti, irruenti, cadenti
Perfette come coppe di champagne
o innocenti accenni che hanno deciso
di non farsi notare.
O enormi coppe di panna montata
in cui anche a noi piace affondar le mani
per ritrovare sicurezza.
O che nascondiamo per paura di sguardi.
Puntute o meno,
con le estremità scure o rosee
Non necessitiamo, noi, di misurazioni
per apprezzarne la bellezza.
E l'uomo lo sa, da lì arriva la sua linfa
e la ricerca fin alla vecchiaia.


(stupidaggine dedicata all'amica simple)

Errori

A volte commetto dei seri errori, tipo quello di farmi conoscere, specie nelle mie eventuali fragilità.
Sbaglio a volte, perché penso di non disturbare e finisco con il farlo, involontariamente. Senza cattiveria.
Buonanotte

giovedì 2 ottobre 2008

I camorristi sono bianchi

"I camorristi sono bianchi, mica neri", urlano gli africani di Castel Volturno e io che sto guardando "Annozero", sento il sangue che raggela dentro di me. Già mi sono incazzata per un ragazzo ucciso per aver rubato un biscotto, ma sentire che in Italia ora serpeggia davvero quel che temevamo, l'odio tra italiani e stranieri, mi fa davvero paura. Ieri sera sono stata con i miei amici, tutti bianchi, a cenare al ristorante di un amico libanese. Si festeggiava a Mestre la fine del Ramadan. Musulmani e mestrini tutti assieme a mangiare alla grande, bere, e assistere agli spettacoli delle danzatrici del ventre. Senza diversità mangiavamo gli stessi cibi, non italiani. Bevevamo lo stesso vino, italianissimo. Festeggiavamo da italiani un evento religioso importante, anche se non fa parte della nostra cultura.
E' bene parlar di queste cose, contrastare l'ondata di odio serpeggiante in questi strani tempi, in cui anche quel che si legge sui giornali per gli italiani è tutta falsità. Chi non si sente dentro razzista, deve alzare la testa e dirlo, raccontare i suoi rapporti con i cosidetti diversi, scrivere anche post del cavolo come il mio, per raccontare piccoli episodi quotidiani di convivenza e rispetto.

Funambola

Sono una che corteggia, che non teme di dire quel che sente se qualcuno la intriga. In amore faccio volentieri la funambola. Cammino sul filo.
Mi vedo con una spada alla D'Artagnan tra le mani a garantire equilibrio. A volte tentenno, altre il passo è sicuro e deciso.E quando una persona mi attrae, mi lancio a camminare nel vuoto, senza più pensare di aver un materasso sotto di me a salvarmi dalle cadute. Le braccia forti a proteggermi sono le mie, oggi lo ho capito e convivo benissimo con la mia fragilità. E se cado, rimbalzo.
Ma non passerò più un giorno della mia vita a tradire le mie emozioni.

mercoledì 1 ottobre 2008

Certi giorni

Ci sono giorni, come oggi, in cui vorrei solo esser stropicciata. Costretta al silenzio a suon di baci, coccole. Sottoposta ad una dose massiccia di attrazione.

L'autunno mi fa male, lo so.
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