Fatacarabina

Fatacarabina

mercoledì 31 dicembre 2008

Ma tu cosa sai...

Mi chiedi se va bene, certo che va bene. No, non va tutto bene. Certo respiro, muovo gli arti superiori ed inferiori senza difficoltà. Un infarto non mi ha ancora steso, ma non per questo tutto deve esser perfetto. Tutto deve andare bene per forza? No, non è così. E soprattutto mio caro, non va bene perché tu non hai voglia di preoccuparti, di interrogarti. Su di me. A volte preferirei, caro mio, che non mi chiedessi niente. Tanto non è difficile intuire che è quel che vuoi sentirti dire. Tutto bene, tutto facile. Certo mica è successo niente. Non ho problemi di salute, non sono in difficoltà economiche gravi, un tetto sotto cui vivere ce lo abbiamo, e pure la macchina e il computer. Viviamo sereni, per ora. Ma tu il tuo tutto bene dovresti abbandonarlo nel cassonetto giù in strada quando sali le scale, sempre più tardi la sera, entri in casa, vai in bagno e poi vieni a letto. Senza un sorriso, senza un reale interesse. Non mi vedi, e allora come fai a chiederti se sto bene, se non ci sono? Non ho voglia di polemiche, è tardi, meglio girarsi dall'altra parte e dormire. O almeno far finta mentre il mio stomaco monta come un caffè che esce dalla caffettiera. Non è affatto consolante, questo gorgoglio scuro dentro di me. Il mio corpo esiste e pure il mio cervello, ma senza un tuo sguardo, di fatto mica esisto. Non ci sono qui, in questo letto, che è freddo e silenzioso e non diverte e non rasserena, neanche se ci provi a pensarlo ed auto-importelo, che è una gioia. Non si parla, non ci si guarda, non ci si sente, non ci si vede. Ho pensato fosse utile non fartelo pesare, che stavi male, che non ti sentivi realizzato. Ho pensato di star immobile ad attendere. Ma proprio questa immobilità mi ha reso prigioniera della tua incapacità di vedere, di non sentire che qui accanto in questo letto-galera, non c'è uno scaldino che accendi quando ti serve, ma una persona che ti cerca, ti desidera, che ha bisogno di te. Nello scontro tra bisogno e non bisogno, perde il primo. Tra l'immobile e il mobile, vince chi sta fermo, in amore chi fugge. Vinci tu, che non ci sei. Perdo io che non ci sono.

martedì 30 dicembre 2008

Generazione


Vorrà pur dir qualcosa. Avrà un senso, questo ritrovarmi dentro ad un clima di generazione, in un momento in cui tutto sembra fermo, paralizzato dalla crisi, quella che svuota i portafogli e ci priva di contenuti, non solo come esseri consumanti ma soprattutto come persone che hanno ideali, aspirazioni, desideri.
Mi sono accorta stasera che attorno a me, ad oramai meno di 24 ore dallo scoccare di un nuovo anno, c'è un mondo che genera. Quattro amiche aspettano un figlio. Una partorirà tra un mese, la seconda lo ha scoperto dopo quattro giorni di festa collettiva a Praga, quasi a sorpresa. La terza, che vive lontano, nella mia amata Buenos Aires, ha atteso per comunicarmelo stasera, felice, via telefono. Lo dice, solo ora, che è sicura che tutto va bene. Perché realizza un sogno a lungo ricercato. La quarta, trapiantata pure lei lontano da me, in Calabria, me lo detto ieri sera. Con il volto radioso, sarà mamma per la seconda volta ad agosto.
Generare, produrre un tuo simile, dargli naturalmente l'essere. Creare dal tuo corpo una vita. Una enorme responsabilità, una enorme gioia che di per sé realizza.
Quale simbolo migliore in vista di un nuovo anno da vivere, in cui combattere per essere sempre come vuoi, senza piegarti ai desideri altrui di cambiarti, della potenza generatrice di una donna che aspetta un figlio.
Quattro amiche, quattro pancioni pieni di orgoglio, quattro vite che combatteranno, domani, come noi oggi, per non piegarsi ai desideri altrui per inseguire i propri. Quattro teste che penseranno a modo loro, occhi che guizzeranno curiosi, mani che stringeranno il mondo.
Ecco un motivo, vero, per esser certi che il prossimo anno sarà bellissimo.

lunedì 29 dicembre 2008

In-catena



Un grazie ed un abbraccio
a maurogasparini
(www.maurogasparini.it)
per la segnalazione (immeritata )
per il PREMIO DARDOS

che premia i blog
“che hanno dimostrato il loro impegno nel trasmettere 
valori culturali, etici, letterari o personali”.
Il regolamento di questo premio prevede di:

1) Accettare e comunicare il relativo regolamento visualizzando il logo del premio
2) Linkare il blog che ti ha premiato
3) Premiare altri 15 blog ed avvisarli del premio

E allora, visto che le catene di questo tipo è giusto non spezzarle per lasciar proseguire
l'effetto della grande onda, ecco le mie segnalazioni

ovvero i blog e i siti di amici che seguo con attenzione
con affetto e amicizia da anni.

Gli esclusi possono prendermi a calci nel sedere per ripicca, sempre che riescano ad inseguire una fata in fuga


guido catalano www.guidocatalano.it
maurogasparini www.maurogasparini.it
artoong www.artoong.net
ibridamenti http://www.ibridamenti.com/
eiochemipensavo http://eiochemipensavo.diludovico.it
simone biagiotti http://365albe.blogspot.com/
le sorelle http://www.sorelleditalia.net/
mare profondo http://mareprofondo.splinder.com/
gallizio http://controsvettole.tumblr.com/
monique pistolato http://www.moniquepistolato.it/
roberto lamantea www.amosedizioni.it
massimiliano nuzzolo http://www.myspace.com/massimilianonuzzolo
la vipera http://www.ilmorsodellavipera.net/

e per la sezione diari personali
le amiche
niki htt://altrodiario.wordpress.com
simple http://sancla.wordpress.com

Desiderare è aver fame

Io sono serena
ma dentro
ho questa maledetta fame
che non mi molla.
E' una fame
che parte dal mio fondo,
che non si tampona
con un tozzo di pane.
Non è che
le lanci la pagnotta
e lei sta buona.
No, lei non si accontenta.
Lo snobba il cibo.
Io resto serena
perché so
di cosa ha bisogno.
Se battagliassi, vincerebbe lei.
Se la incatenassi, perderei.
Se la lascio ringhiarmi contro
e la fisso diritta negli occhi
e desidero, come lei che ha fame,
alla fine vinco io.
Lei come me che sono lei.

Non salgo sulla bilancia

Come sempre, a fine anno è tempo di bilanci. Cosa è andato bene? Cosa male? Metti un anno di vita sulla bilancia e pesi. E sulla base dei più e dei meno, del fatto e non fatto, dell'ottenuto e del negato, cerchi di capire se sei andato avanti, se sei rimasto fermo, o se sei peggiorato.
Rifuggo dalla bilancia. Non peso così la mia vita, so troppo bene che quel che oggi può sembrarmi un segno meno, domani potrebbe trasformarsi in una moltiplicazione o una sottrazione continua.

Sono in movimento, questo mi soddisfa.
Scrivo, questo è un bisogno.
Sono capace di volere bene a gratis, e questo è fondamentale.
Sto bene con il mio vento e questo mi rasserena.
So bene che per taluni sono un rebus ma questo non mi inquieta.
Spiegare troppo non è più una necessità e questo è consolante.
Desidero fortemente e questo mi tiene in vita.

domenica 28 dicembre 2008

Buonanotte

Un torrente di emozioni non tranquillizza, non è mica un placido fiume navigabile.

Pola (para) roid

Io tra le braccia di papà, dietro di me Lea.
Il furetto nichilista e il Drugo, sul tappeto.
Sigaretta tra le labbra, fumo che esce.
Io a due anni, sigaretta in bocca, per giocare. Spenta.
Un ombelico, era musicale.
Le mani tra i capelli.
Io a San Luca, margherite tra i capelli.
Schiaffo, mani grandi.
La katana della sposa, schizzi di sangue.
Porta chiusa. Non c'è sangue.
Io a Buenos Aires, sorrisi.
Il mio occhio al trucco. Liquido.
Sin city, pioggia grigia.
Il mappamondo di Mafalda.
Me allo specchio, occhiolino.
Una mezza pinta di Guinness.
Tanti capelli, arruffati.
Una bocca, voglia.
Mani che dipingono una schiena.
Non è la mia.
Pelle, tanta pelle.
E' la mia.

sabato 27 dicembre 2008

Emoticon, salvami tu...

Faccio pulizia nella mail, cancello vecchie chat e mi rendo conto di quanto poco si possa esser umoristi in un dialogo spesso solo chattato, il rischio è che se dici una cosa per provocare o solo per ridere o ci metti subito una sfilza di emoticon con la rassicurante faccina sorridente o mica si capisce che scherzavi.
E se non lo fai, pare che hai recriminato su tutto, su questo e su quello, e invece stavi solo giocando…o provocando, perché magari provocare ti piace o sei portata allo strappare un sorriso al prossimo, come secondo comandamento dopo il "non uccidere". E scopri che se poi i tuoi interlocutori mica ti capiscono e magari ti tiran una testata, virtuale o reale che sia, manco torto c’hanno, perché magari qualcosa anche tu non l'hai capito bene.
In una chat se vuoi buttar in vacca un discorso serio e ci giochi, se non ci ficchi ottanta emoticon con la faccia monatta dal sorriso perenne di seguito, finisce che non ti fai capire bene.
E allora sarebbe giusto spegnere il computer, prendere il telefono e parlarsi direttamente o andar al bar a prendere un caffè. Così dal tono della voce o dalle smorfie della faccia ( ben più divertenti di una pallina con due occhietti scemi) lo capisci se uno scherza o meno, se ti provoca e gioca e invece non ti sta facendo il culo come una capanna perché non gli va bene come sei, quel che dici e come lo fai...e non ci resti male e magari sorridi, ed una amicizia non la trasformi in un casino di incompresi ma in un tripudio di condivisione. E ridi... e invece così lo lasci fare all'emoticon, quel ruolo. Non lo fai tu, lo fa lui per te.
E magari tu sorridi meglio perché hai pure gli occhi birichini e le boccacce ti riescon alla grande e la smorfia da sfigato è da premio Oscar.
E dall'altra parte del computer , purtroppo, spesso, manco se ne accorgono.

(piccola riflessione nata su Friendfeed)

Io rompo, tu rompi...

Pare sia una prerogativa femminile, più che maschile, ma il rompere richiede doti importanti, fatte di tenacia, tecnica e grande pazienza che forse davvero non è un esercizio per esseri basici.
Perché il rompere è lento ma costante, come la goccia che batte sulla pietra. Io a quello stadio ancora non ci sono arrivata ma mi sto allenando per ottenere il giusto risultato, forte di esempi femminili in famiglia che hanno vinto per decenni il contest nazionale di spacca-maroni. In realtà a frenare la mia naturale predisposizione alla rottura, è proprio l'esempio familiare di cui ho subito gli scassamenti da decenni, assieme al resto dei componenti del nucleo, cane e canarini compresi.
Per questo alla tecnica del costante ma lento scassamento, ho preferito quella del genere "tasmanian", con la produzione di tornado devastanti che non durano più di quindici minuti ma che lasciano solo detriti al loro passaggio.
La quiete successiva, anche se in un deserto di rottami vari, corporei e non, almeno lascia il tempo ai malcapitati di pensare che in fondo cattiva mica sono, come è vero. Sono solo una irruenta.
"Te verso come na canocia cussì vardo se ti ga un serveo", è la frase che dovrebbe metter in guardia qualsiasi malcapitato o malcapitatata che inciampa nella furia del tornado genere "tasmanian". Io lo dico in veneziano, voi fate come vi pare che i dialetti son tutti belli.
Le parole, quelle a cui tengo di solito così tanto, volano a caso producendo una rotazione concentrica che arriva a superare i 130 chilometri orari. In un caso siamo arrivati ai 200, cronometrati dalla vittima di turno in un misto di orrore ed ammirazione. Aveva osato dire che ero una donna incomprensibile, sbadata e avevo sbagliato un tempo verbale.
Se ci sono a tiro piatti ed altri oggetti di uso quotidiano, la roteazione può provocare spiacevoli oscillazioni e spostamenti nell'aria dei suddetti. E' successo, ma non è stata colpa mia. E' un pochino come le cavallette.
Non ho mai fatto ricorso all'uso delle mani, sono contraria alla violenza se non per difendere la mia vita da attacchi estranei. E quindi il tornado fa da sé, con i suoi cerchi pieni delle mie parole che finiscono a mescolarsi a caso, tramortendo tutto. La calma successiva mi porta al silenzio, ma non è una resa. E spesso l'interlocutore di turno sbaglia pensando che sia quello il momento giusto per contrattaccare. No, la rottura può proseguire con metodi e modi diversi che comprendono un lentissimo, estenuante, confronto su ogni virgola e punto messo nel discorso del contendente, che magari non ha capito quel che volevo dire e se ne è risentito. Oppure una mia improvvisa e lunga sparizione dalla scena della contesa, ma in realtà sono a pochi passi ad affilar l'ugola. Oppure uno scontro di sguardi e frecciatine che può durare per ore. I metodi sono tanti, alla fine, ognuno affina al meglio la propria tecnica. Io mi ci sono scoperta portata alla rottura quasi per caso, e all'inizio la rivelazione, come tutti i super poteri, mi ha pure choccato. Poi ho scoperto che sono tantissimi ad avere questo potere, ognuno con la propria specialità. Si dovrebbe organizzare davvero quel contest nazionale di scassa-maroni. Ne vedremmo delle belle. Cronometrare i secondi in cui si propaga l'incazzatura, organizzare prove di lancio di piatti, misurare la velocità prodotta dai singoli tornado, valutare l'intensità in termini di decibel di un urlo ben assestato. E ancora premiare con un punteggio la produzione di parole e improperi, con un bonus per quello più originale. Gran finale , la maratona della goccia sulla pietra. Estenuante ma eterna. Come la vita. Come le rotture...

venerdì 26 dicembre 2008

il valore del no

Si fa vivo a Natale, per gli auguri. Una telefonata che inizia con una recriminazione: sono mesi che non ti fai più sentire. E io penso, certo che sono passati mesi. Beh volevo invitarti a bere un caffè, dice lui, ma sei sempre impegnata. Un caffè, o quello che vuoi tu, mi dice. E' Natale, sono uscita indenne dal pranzo in famiglia, stavolta senza contestazioni e polemiche. Insomma, non ho voglia di tirar fuori le unghie e colpire. Ringrazio, spiego che sono una donna piena di impegni e di lavoro ( che è tutto vero), che ho pensato a farmi la mia di vita, senza pensar alla sua ( che è vero il triplo) . Ci vedremo, se ci sarà occasione e tempo, per un caffè, rispondo. Mette giù, non prima di aver calcato la mano, ricordandomi che possiamo fare, assieme, tutto quello che vogliamo. Il messaggio è chiaro. Prendi il telefono, chiamami _ è il senso _ e vieni da me. Per far che? E' ovvio, l'unica cosa che si poteva far bene assieme.
La proposta suona come l'invito ad andare al supermercato delle cose facili, prendi e ti diverti un pochino.
Anche se ti accorgi subito che stai comperando un giocattolo già rotto.
Ma le parole hanno un peso sostanziale nella mia vita. E so perfettamente, oggi, che quel che può sembrare facile per qualcuno, per me non lo è. Non cerco la via facile alla felicità, ma quella serena e entusiasta, fatta di gesti e parole che hanno un peso specifico alto. Qualità, sincerità, rispetto, stima.
Il vento mi scorre dentro da mesi, mi invita a vivere la vita con gioia ed entusiasmo. E se sbatto contro un muro, almeno lo faccio con il coraggio di chi ci ha provato. Senza falsità.
Insomma non mi servono surrogati.
E se ho voglia di sesso, non vedo questo desiderio come una semplice ginnastica anti-stress. Per quella mi basto da sola.
Il risultato sta alla fine tutto in due lettere, spedite via sms.

NO.

giovedì 25 dicembre 2008

Guri!




Auguri a ...
chi mi conosce benissimo, a chi comincia a farlo e a chi non ci riuscirà mai.
Auguri agli uomini che ho amato e a quelli che mi hanno detto no.
Auguri agli uomini che non ho voluto e a quelli che ho solo sognato.
Auguri a chi mi ha generato ( e qui ci sta anche un grazie)
e a chi mi trova ancora oggi inadeguata ( e qui il grazie lo tolgo subito).
Auguri alle amiche sincere e vere, quelle che ti dicono in faccia cosa pensano.
Auguri agli amici che sano veder oltre.
Auguri a chi ama leggere e a chi vive di passioni.
Auguri a chi ama scrivere e sulla carta cerca di trovare un senso.
Auguri a chi è in strada e si sente solo
Auguri a chi è in casa, c'è troppa gente, e si sente solo lo stesso.
Auguri alle donne violate, derise, umiliate, maltrattate.
Auguri ai bambini, tutti, nessuno escluso.
Auguri a chi si sente un guru, pieno di potere, e
a chi si sente una particella di sodio, inascoltata.

Auguri e qui potete continuare voi...

Buon Natale, baciatevi se potete

Ne ricevi tanti in questi giorni, più o meno sinceri, più o meno coinvolgenti.
E' la febbre del Natale, che ti fa dare una infinità di baci e regalar sorrisi.
Va bene così.
Ma per fortuna, non tutti i baci sono uguali.
Ci sono baci che sono fondamentali.
Baci ben dati, morbidi e rasserenanti.
Portatori sani di felicità.
Un bacio in apnea, lungo come una giornata, al sapore di gioia e desiderio, mica lo porta Babbo Natale.
Non lo trovi sotto l'albero, in mezzo ai pacchetti regalo.
Non lo trovi neanche all'ipermercato, in offerta 3x2
Le sue tracce le trovi, semmai, inciampandoci sopra
o nei gesti di chi te lo offre e te manco te lo immaginavi.
Lo trovi dentro le pagine di un libro
sulla faccia felice di un uomo innamorato
negli occhi di una donna che scopre di aver generato una vita.
Lo puoi annusare tra le lenzuola di un letto sfatto di due amanti.
Tra i capelli di una ragazzina che non sa neanche dire, oggi, cosa è l'amore.
Lo trovi tra le mani di un uomo che ha appena lasciato il suo desiderio
tra i seni di una donna che non rivedrà, ma che ha voluto perfino con le ossa.
O nello sguardo radioso di un bambino che gioca con il regalo tanto atteso.
O ancora tra le gambe di una donna che non sa più come chiederli e dorme sola.
Sono dentro di noi, ogni giorno, i baci fondamentali.
Ma ci vuol coraggio per farli emergere
dal fondo dello stomaco e lasciarli andare
dove è giusto che vadano.
Hanno la potenza di una fusione nucleare
solo che la direzione la scegliamo noi.
Fondono vite, storie, aspirazioni diverse in un gesto che genera
Un giorno può essere la somma di 24 ore
o un grandioso investimento, senza rischio di tracolli, in gioia, desiderio, serenità e amore.
Lo sa anche Babbo Natale, che di baci così ne vorrebbe pure lui,
e invece in queste ore lavora a cottimo per una multinazionale.

mercoledì 24 dicembre 2008

Disintossicazione mentale

Approfitto di questa pausa natalizia per liberare il cervello da scorie di stress, errori che pesano come macigni, vivisezionare emozioni difficili da gestire. E soprattutto respirare. Ho bisogno di concretezza, di parole semplici.
E quindi spengo internet, lascio decantare questo blog, faccio ciao ciao con la manina al social network. Agli amici e alle amiche, un bacio con lo schiocco.
Chiudo la casa virtuale e vado a farmi un giro.

Auguro a tutti di trascorrere le festività con chi amate davvero, senza finti auguri e false soddisfazioni, ma con vera felicità.
Ci si rilegge qui, prossimamente.

martedì 23 dicembre 2008

Non è colpa mia

Ci provo, cerco di star attenta. Di non ricadere nell'errorino. Alla fine, ci ricasco sempre.
Sono della famiglia dei distratti, di quelli che per inseguir il piacere di un pensiero, lieve o pesante che sia, finiscono con lo scordar il dovere delle quotidiane incombenze. Sono così distratta a volte che saluto gente che non conosco e non bado ad amici da una vita che urlano a squarciagola per richiamar la mia attenzione. Sono così distratta che un giorno sono andata in ufficio con il pigiamino fucsia sotto il cappotto, e poi sono scappata a casa con la faccia dello stesso colore, quando mi sono accorta degli sguardi allucinati dei colleghi. Sono così distratta, che non mi accorgo se una auto tampona la mia al semaforo e me ne vado bellamente al verde senza rendermi conto di nulla. Sono distratta al punto che un giorno non ho manco riconosciuto mia madre, e lei è rimasta choccata e non mi ha parlato per un mese. Sono stata distratta anche quando scherzando con un amico poliziotto sulla sua nuova Beretta, l'ho presa in mano e gliela ho puntata alla fronte...Vabbé ma mica sapevo, io, che la sicura non c'era. Da allora mi evita...ma sono altre storie. Durante una visita a palazzo Ducale, mentre sognavo di esser una principessa in mezzo ai cavalieri in armatura, mi sono stampata su una vetrata che non avevo visto, ovviamente. Il frastuono è arrivato fino all'aeroporto di Tessera.
Camminar sul ghiaccio e pensare contemporaneamente, sono attività lesive per le mie giunture inferiori. In aereo mi distraggo al punto tale che dormo bellamente prima del decollo ed utilizzo la spalla del malcapitato vicino di posto come cuscino e se ci scappa la bavetta, come i neonati, non so che farci...
Se mi siedo in un locale, e la conversazione di chi mi è vicino non mi tiene ben attenta, posso girarmi involontariamente ad ascoltare i discorsi dei commensali al tavolo a fianco. Una volta, la conversazione era così interessante e struggente che mi sono seduta con loro, una coppia che si stava lasciando, e ci ho fatto pure la lacrimuccia. Mi hanno allontanata a malomodo, dandomi della ficcanaso. Avevano ragione ... ma ero presa dal dialogo, incessante e intelligente.
Mi distraggono i raggi di sole, i fiori e le piante in genere specie se del tipo succulente, gli odori di una cucina in cui si sta preparando una cena, gli uomini in camminata libera, i libri posati su un tavolo e pure una bottiglia di vino stappata...Mi distraggono soprattutto le parole, anche quelle sussurrate salendo le scale mobili di un centro commerciale e i movimenti di una mano che va ad accarezzare i capelli. Ecco, mi distraggono i capelli. Annuso quelli di amiche e amici, non lo faccio apposta, ma sembro un cane da tartufi. E se sto pensando a qualcosa di succulento mentre sono alla mia scrivania, in ufficio, intenta a scrivere, finisco con il palparmi involontariamente il seno sinistro. Insomma ho il cervello veloce, mi vien da dire per scusarmi. Che poi , a dirla tutta, cosa c'è da scusarsi, se hai la testa piena di pensieri, che volano lontani o vicini, e sono solo tuoi e ti tengon in vita.
Come le parole ben dette, che quando le senti pronunciare, diventi parte del racconto.
Scusate, cosa stavamo dicendo?

domenica 21 dicembre 2008

Soddisfazioni personali

Girovagando nei siti amici sono finita sul blog del mio amico Sba . Lo leggo spesso ma non avevo mica fatto caso al link al mio di blog e soprattutto alla motivazione:

La compagna ideale per una sbronza triste, ma anche di una sbronza allegra, insomma se la sgnapa la porta lei… ti xe ciavà.


Eh, signori e signore, sono soddisfazioni!
Hic

Volevo un libro

Stamani mi sono svegliata sentendomi un organismo monocellulare, solitario, in una casa in cui oggi il silenzio era pesante. Ho acceso la radio, su gtalk non c'erano i soliti saluti mattutini con gli amici. Mi sono concessa il primo caffè dopo una settimana in cui ho carburato solo grazie al thè, mi sono infilata la gonna che non mettevo da mesi e sono uscita a godermi il sole. Meta la libreria, ma non sono riuscita a comperare nulla perché c'era una coda infinita di gente, dalle signore impellicciate ai pensionati, in fila annoiata per pagare libri e cd. La crisi, quella che al governo fingono di non vedere ma che esiste davvero, spinge tanti a regalare libri questo Natale. Io i libri li ho sempre comperati e letti e non potrei vivere senza. Li regalo tutto l'anno, mica solo a Natale e non sono affatto un presente qualunque per me ma un regalo importante, un dono prezioso quanto un gioiello. Mi sono ricordata, mentre guardavo la coda di acquirenti in coda e mi chiedevo quanti in realtà erano lettori e non semplici consumatori all'ultima spiaggia, di una intervista sentita ieri sera per radio. Parlava Max Gazzè, un cantante che stimo, e lui diceva che un libro scritto o letto è una opera d'arte. E che lui i regali li faceva quando si sentiva, mica alle feste comandate. Ho rinviato l'appuntamento in libreria a malincuore e sono andata a passeggiare in strada, con una malinconia che mi saliva dal fondo dello stomaco su fino al cervello, innervosendomi. Ho girato per le bancarelle che vendono quintali di sciarpe, guanti, salami, finti vetri di Murano, spesso con il marchietto made in China, ben nascosto. Cercavo dei regali per i miei amici più cari. Alla fine non ho trovato niente che andasse bene. Ci voleva un libro per trasferire affetto, regalare emozione, consegnare un diverso punto di vista che accresce. Ci voleva un regalo così prezioso per trasferire l'amicizia e anche l'amore che provo per quelle persone che condividono con me un pezzo delle loro vite, mi sopportano, tentano di interpretare il mio cervello non sempre lineare. Oppure un oggetto che non fosse il falso del falso, ma frutto del lavoro di un artigiano, di un ragazzo di un centro per disabili, di un lavoratore del Sud del mondo. Non so se capite, ma ho cercato una traccia di genuinità che non ho trovato e questo ha acuito il mio stato malinconico. Perché mi accorgo di aver bisogno di genuinità e autenticità in tutto, in primis nei rapporti umani, prima che nei regali di Natale. E mi accorgo di non esser più capace di spacciar auguri a quanti non riesco a sopportare, perché rappresentano ideali lontanissimi dai miei.
Sono finita in una serra, a comperare l'ennesima pianta anti-malinconia, con cui condividere il mio piccolo appartamento, che in fondo è la mia cuccia. L' ho messa in auto e l'ho protetta allacciando attorno al vaso la cintura di sicurezza, come fosse una bambina piccola. Non chiedetemi perché lo faccio, è così e basta. La malinconia è rimasta. Volevo un libro e non l'ho comperato, volevo far dei regali e non ho trovato qualcosa che mi esaltasse. Sono finita a svuotare il vaso malinconico in questo post. Non mi interessa se chi lo leggerà, lo troverà inutile alla sua vita. Oltre a leggere, la cosa che amo di più fare è raccontare storie e mica sempre risultano esaltanti e sconvolgenti i racconti che ti escono da dentro. Stavolta è un frammento della mia, di storia.
E sono finita sul divano a leggere il libro della settimana, in attesa che l'orologio scandisca il tempo di andar in ufficio a lavorare.
Raymond Carver in "Niente trucchi da quattro soldi " scrive:
Penso che la letteratura possa renderci consapevoli di certi nostri difetti, di certi aspetti della nostra vita che ci mortificano e che ci hanno mortificato in passato, che possa farci capire cosa ci vuole per essere davvero umani, per essere qualcosa di più di quello che in effetti siamo, qualcosa di meglio. Penso che la letteratura possa farci capire che non stiamo vivendo la nostra vita nella maniera più piena. Ma se la letteratura possa davvero cambiarci la vita, questo non lo so. Sarebbe bello che fosse così. In effetti, può darsi che un racconto o un romanzo sia in grado di cambiarci la vita, di cambiare la nostra vita emotiva, mentre lo leggiamo. Forse se lo facciamo abbastanza spesso alla fine avverrà un processo di osmosi che ci aiuterà ad affrontare quello che ci aspetta.

E per me c'ha ragione.

sabato 20 dicembre 2008

Letterina

Caro Babbo Natale, quest'anno non ti chiedo niente.
Quello che mi serve ce l'ho, mi manca solo una cosa.
Bella, avvolgente, totalizzante, inebriante e intelligente.
E mi sa che quella tu non me la puoi dare.
Ci dovrò pensar da sola.
Che è il modo migliore di farsi un regalo.
Grazie e ciao

venerdì 19 dicembre 2008

Supereroi

Quando l'ho vista, la madre Superiora, mi era sembrata un enorme catafalco nero, che mi ricordava quel telefilm in replica che in tv mamma non mi lasciava guardare, Belfagor, perché faceva troppa paura. Tutta nera con quella faccia bianca senza sorrisi , mi sovrastava con un cipiglio duro, che non aveva nulla a che fare con i sorrisi che avevo lasciato a casa. Per un attimo pensai che mi avrebbe incenerito. Mi sedetti al banco e presi le matite colorate con la mano sinistra. Lei si fece il segno della croce, un gesto scaramantico anti-mancini che io capii solo dopo, alle elementari. La compagna dietro di me, mi tirò i capelli e mi disse lievemente: "Dopo ti picchiamo Silvia, sei la bambina antipatica con i capelli rossi che mi ha fatto cadere alle giostre". Io ero allibita: non mi chiamavo Silvia ed all'epoca ero quasi bionda tedesca, comunque di certo non rossa di capelli. Le prime due ore passarono veloci, io che mi tenevo lontana dalle bimbe che volevamo picchiarmi e la Superiora che ogni due minuti veniva a spostarmi la matita colorata dalla sinistra alla destra e io che resistevo, tornando ad usar la mano preferita e lei che accompagnava l'inutile tentativo con un segno della croce sconsolato. A pranzo uscii in giardino con gli altri. Rimediai uno scoppellotto e quattro calci dalle compagne tanto solerti nel punirmi per colpe non mie ed una serie di strattoni grandiosi della Superiora quando mi ritrovò attaccata alla fontana, intenta a divorare a strappi il fazzoletto di cotone bianco, urlando che volevo la mamma . Piangevo con una produzione di lacrime otto volte superiore allo zampillo della fontanella dell'asilo. Caddi stremata in refettorio al momento del pranzo, quando dopo la pasta al burro, arrivò la terrificante mela cotta. L'odore ancora oggi mi fa accapponare la pelle. Non feci il segno della croce, per non lasciar il fazzoletto sbranato e rimediai un altro ceffone dalla Superiora. Che poi , stanca anche solo di vedermi in lontananza frignare come un cagnolino abbandonato, mandò la bidella a chiamar mia madre. "Se la porti a casa, per favore", fu l'invito della suorona quando lei arrivò, tutta trafelata. Quel giorno , l'unico passato in un asilo, io ho amato la mia mamma, come si amano solo i supereroi dei cartoni animati.

lunedì 15 dicembre 2008

Mi chiami come vuole...

Ho ancora addosso questo stupido vestito rosso, il vomito ha sporcato la pelliccia bianca e i polsini non sono più immacolati, ma macchiati di fango. Cosa volete da me? Che vi fornisca le mie generalità? Mi chiami Gianni che va bene lo stesso. Cosa ci facevo nel vicolo? Vomitavo, ho bevuto troppo stasera. Veramente bevo troppo da mesi, da quando è arrivata la riconferma del contratto. Me ne stavo tanto bene a casa mia, con mia moglie e i miei animali, nel freddo del mio paese. Invece questo schifoso contratto di lavoro mi costringe ad andar via tutti gli anni e passar settimane nel vostro mondo caotico, inquinato, iper-tecnologico. Partire è un po’ morire e io, ogni anno che passa, mi avvicino alla mia fine. A pensarci sto male e bevo per anestetizzarmi dal fastidio di dover partire, di dover venire ad allietare le vostre ipocrite vite. Bevo per non pensare che sto morendo. Bevo per crepare prima. Perché ho picchiato quel barbone? Mi ha preso in giro. Diceva che ero un pallone gonfiato. E ho colpito duro quella faccia da clown ridente, finché l'alcol che avevo nello stomaco non mi ha costretto a fermarmi a vomitare. Finché non ha smesso di sorridere così.
Ma me lo dite cosa volete ancora da me? Non credete nella mia professionalità, per voi non valgo niente, salvo poi chiamarmi tutti gli anni a far il buffone alla vostra corte. E io che dovrei fare, obbedire? E’ vero, c’è un contratto, e mi pagate pure così il resto dell’anno me ne posso star a casa mia. Ma io non ce la faccio, mi chiedete cose, pretendete che vi sorrida, che sia amabile e buono. Ed ogni anno che passa, il sorriso diventa finto. Mi sento vuoto, sfiancato. Volete che vi ricordi quel che voi non siete più. E così berrò, fino a farmi scoppiare il fegato, che è quel che voglio. Il brutto è che con tutto sto rosso che ho addosso, se il fegato mi si spappola davvero e comincio a sanguinar dalla bocca, il sangue sul rosso del vestito manco si nota. Insomma, per voi sarebbe lo stesso. A meno che non si sporchi anche la candida pelliccia che mi passa attorno, lungo i bordi del vestito, e che ora è macchiata di vomito scuro. Ho fatto le prove generali. Vi fa schifo, vero? Non sono presentabile così? Ma che posso farci... se la pelliccia candida si macchia del mio sangue, non rosso, ma nero, a grumi con tracce bluastre, allora sì che sarà un bel vedere. Il mio sangue è nero, coagulato dal mio schifo personale. Sia chiaro, commissario, se crepo io non cambia niente. Ma almeno sarà un bel morire. Le telecamere verranno a filmare il mio cadavere, il volto bianco e ossuto, la pancia gonfia da mesi di super-alcolici, mica dal grasso pacioso della serena abbondanza, la pelliccia devastata dai grumi neri del sangue vomitato dalla mia bocca, fino ad asfissiarmi. Lo sguardo atterrito, dallo spasimo finale del dolore. Si immagina, commissario? Che servizi, con i commentatori in orgasmo dialettico, gli psicologi a porsi domande, le aziende a listar a lutto gli alberi di Natale. Durerà il tempo di due giorni, massimo tre. Sono pur sempre uno famoso, una faccia nota. Poi mi lascerete in pace. Passate undici mesi a burlarvi di me, dicendo che pensar che io esista è roba da bambini, da creduloni. Ma io esisto solo per far sorridere i vostri figli e voi l’avete dimenticato. Così come avete dimenticato di insegnare ai vostri figli il piacere di regalarsi un sorriso. Questi bambini oggi mi tirano la barba, mi tirano calci allo stomaco per veder se sono finto, mi guardano come se fossi un fenomeno da baraccone. Non mi chiedono giocattoli ma cose da grandi, che costano. E non mi sorridono più. Io che ogni anno arrivavo con i miei sacchi ho dovuto cambiar distributore, cercar la merce alla moda, la stessa ovunque. Voi la chiamate globalizzazione, io la definisco una stronzata da terzo millennio. Roba da grandi messa in mano ai bambini. Cellulari, computer, roba che costa tanto e che si rompe in fretta. E vestiti da donne per le bambine. E Iphone da 500 euro per i maschietti. Tutto è peggiorato quando i giocattoli mi sono stati cancellati all’ultimo rinnovo del contratto. Nessuno ha pensato manco di recuperarli per darli a quei piccoli che nel mondo se la passano peggio dei vostri figli, senza cibo, senza scarpe, senza genitori. Loro sanno sorridere ancora davanti ad un pallone o una bambola di pezza. Il datore di lavoro, invece, li ha mandati tutti al termovalorizzatore, considerandoli fuori moda, inutili balocchi del passato. Li ho visti bruciare, e con loro ho visto morire centinaia di sorrisi. E per evitare di gettarmi nel fuoco a recuperarli, ho preso una bottiglia di whisky e ho mandato giù lunghissimi sorsi. Per anestetizzarmi. E ho camminato per ore, bevendo e basta, fino a quel vicolo. Per spegner la rabbia, il fastidio, lo schifo. Meglio annullarmi in un litro di whisky che cedere, pensare che quel che faccio va ancora bene, che è giusto. Volevo lasciare da tempo ma la mia campagna ghiacciata non mi permette di mantenere me e i miei animali. E così sconfiggerò il ricatto, lavorando, ma morendo, lentamente. Tanto dentro sono già un encefalo quasi piatto, che risponde oramai solo agli stimoli e ai doveri essenziali. Bere, pisciare, camminare, distribuire, pisciare, bere, andare a cacare, bere, pisciare, vomitare, bere, consegnare, sorridere, defecare, vomitare e bere. Ok, commissario, a lei non interessa nulla di quel che le sto raccontando. Vuole solo le mie generalità per poi spedirmi in cella stanotte. L'accusa? Lesioni. Puzzo di vomito, è vero. Non ho addosso un bell’odore, lo ammetto. Ma anche quello stronzo, non puzzava meno di me. Sì, ok, ho cominciato prima io.
Mi chiami come vuole, le ripeto. Sì, assomiglio a Babbo Natale. Ma lei ci crede? No. Ecco, appunto, lasciamo stare. Mi chiami pure Gianni.

L'insonnia praghese

Era da tempo che non sognavo così tanto. Quattro giorni via di casa, a camminare tutto il giorno a zonzo per Praga e poi arrivi a sera e crolli sul lettone. Sei stanchissima, metti la testa sul cuscino e dormi subito. Un sonno profondo che non penseresti ammetta neanche un minimo spazio per i sogni e invece quelli arrivano, e ti ritrovi a passare notti insonni a Praga a parlare , a raccontarti tutta la notte. Notti insonni in cui non si guarda mai l'orologio ma solo si studiano le rughe e i percorsi di un viso; in cui non ti fai neanche prendere dalla fretta tanto sai che non ti bastano 24 ore per raccontare una vita e ascoltare il racconto della vita altrui. E allora tanto vale spaccarlo l'orologio e lasciare che il racconto continui. Notti in cui l'aria odora d'assenzio bollente e di libri letti e riletti e il mondo lo puoi allontanare in fretta, nascondendoti sotto una coperta con una piccola lampada ad illuminare l'improvvisato rifugio, che è solo tuo e di chi vuoi tu. Oppure notti dove metti il giaccone sopra il pigiama e hai solo voglia di camminare nella penombra, sopra i freddi massi di pietra. Il naso all'insù a cercar le statue mostruose e un braccio che ti scalda mentre tu sei alle prese con i brividi del tuo personale mistero.

lunedì 8 dicembre 2008

Il letto di Paola

Ti lascio andar via, ma vorrei aver il fiato sufficiente per dirti di restare. Invece il fiato mica arriva in gola a formar le parole e allora ti saluto con un sorriso, il migliore che possa regalarti. Così quando sarai lontano e ripenserai a stanotte, non avrai dolori e tensioni, se non quelle del desiderio che non fa rima con dispiacere. Tu chiudi la porta e io resto sola, in questo letto. Le lenzuola, i cuscini, il copri-piumone sono impregnati del nostro odore, che si è mescolato in una fragranza forte, di terra e fiori. Mi sa che l’hai sentita pure tu, fortissima, quella fragranza. I tuoi capelli, le mani, il petto, la bocca sono ancora impregnati del nostro odore. Certamente lo stai sentendo anche tu, come me, in questo momento.
Nel letto resta a farmi compagnia il tuo calore, che si è concentrato come una sagoma termica nello spazio dove prima stavi tu, e io mi spingo a cercarvi il giusto tepore del riposo. Come un gatto mi ci raggomitolo attorno, e questa porzione di letto, con dentro il tuo odore e la tua temperatura, cerco di trattenerla con me il più possibile. Vorrei arrivare a mattina, superare la soglia dell’alba, e sentirli ancora addosso. E’ una giusta chimica, quella che si è formata in questo letto. Ma non c’è quiete, per ora. Stendo le gambe, sono irrigidite e scosse da continue , piccole, inesorabili scosse elettriche. Le sfioro, sperando di calmarle, ma loro sono come elettrificate. Non le controlla il mio cervello. Devono placarsi da sole, quando sarà il ventre a dire basta. E allora chiudo gli occhi. L’odore, il calore, il ballo delle gambe, tutto, mi tiene aggrappata a quello che ci è successo stasera. L’incontro per le scale del palazzo, il tuo sorriso ironico, l’invito a prender un bicchier d'acqua che poi diventa una pasta mangiata assieme, i racconti di vita reciproca. E poi la tua mano che sfiora il mio collo mentre lavo i piatti, l’ altra che cinge i miei fianchi. Il mio sorriso, il tuo sorriso. La tua bocca che cerca la mia e la mia che risponde e quelle parole silenziose che si dicono solo quando ci si bacia. E ancora le tue mani, che mi stringono ora con forza, che si aggrappano ai miei seni, fino a far male. Mani che scendono , con la volontà di liberarci dalla stretta costrizione di vestiti, adesso inutili. Una barriera al calore, autentico, dei nostri corpi che si cercano, si sfiorano, si assaggiano come se la fame fosse quella di una vita. E solo ora si potesse davvero mangiare. E ancora io, sopra di te, a sorriderti, ondeggiando, pensando che a questo punto non sei manco tu dentro di me ma sono io dentro di te dentro di me. E il calore sale e la fame aumenta. Tu che ridi dei miei occhi gialli, che quando faccio l’amore paio una lupa polacca, dici. E io che rido delle tue buffe smorfie, che mi divertono, dico. E ridendo e assaporando, io mangio la tua vita e tu la mia, mentre io mi muovo sopra di te, imparando ad andare al tuo di ritmo. Siamo come due ballerini che hanno paura di pestarsi i piedi nel paso doble e vanno lenti, ma convinti, e più trovano sintonia, più improvvisano e sanno andar veloci e trovano la loro, di musica, da ballare. E quando sentiamo che tu sei davvero dentro di me che sono dentro di te che sei dentro di me, allora, si può solo gridare. Non si può dire, tranne quel che sa dire un lungo bacio disperato che non saprà mai di morte. Perché la vecchia stanotte, in questo letto, l’abbiamo fregata di nuovo, scacciandola con la chimica del nostro piacere. E dormire adesso sì che diventa facile e le gambe si placano, lentamente. E il sorriso mi fa compagnia, come fa compagnia a te stanotte.

Parole

Ci sono persone, che non pensavo, che mi entrano sotto pelle e ci navigano dentro, silenziose il più delle volte, e poi quando vogliono loro, sanno dire parole che, con l'eco che si produce improvviso sotto pelle, finiscono con lo smuovermi dentro, dal cervello al ventre. E io resto stupita a veder come reagiscono i miei due cervelli, che hanno bisogno di onestà e sensibilità, oggi, per muoversi davvero, davanti a queste parole che mica sono dette per me, ma hanno toni veri, fondamentali.
Mi spunta una lacrima perché so cosa significa amare con le ossa e non solo con il corpo, il cervello e la pancia. Ricerco quella sensazione, che mica sempre la trovi e tantomeno al supermercato delle emozioni.
Non è una lacrima triste, piangiamo per toglierci le tossine dal cervello e pure le parole, talvolta, hanno il potere di depurarci dentro. E io che ora so chi sono e voglio andare nel bosco ad accarezzare quel lupo, che in certe notti, nei sogni, mi viene a trovare, e stavolta ci voglio camminare assieme senza paura che mi azzanni e mi lasci con la gola squarciata a terra a cercar di dire una parola che non so dire, sono felice che ci sia ancora chi le sa dire le parole, quelle fondamentali. Che escono dal cervello, vengono filtrate dalla pancia ed escono potenti e rafforzate. Come un pugno che ti intontisce e poi ti costringe a reagire.

domenica 7 dicembre 2008

Alla porta

Se tu fossi il mare mi tufferei di corsa
ancora con i vestiti addosso
Mi lascerei bagnare e
sferzare dalle tue onde.
E pure la paperella si divertirebbe.

Se tu fossi il cielo, noleggerei un deltaplano
per venirti a solleticare
giocando con le tue correnti ascensionali
per poi baciarti a sorpresa.
E il condor sarebbe complice.

Se tu fossi un vulcano, mi arrampicherei
fino a te, per toccar con un dito
quanto stai bollendo dentro e
porterei pure l' ovetto, per dopo,
da cucinar lentamente sotto la cenere.

Se tu fossi una foresta, organizzerei
una spedizione alla ricerca della tua
pianta più segreta e misteriosa.
Per rubarla, e trarne
un lisergico distillato di vita.

Ma non so chi sei e cosa vuoi da me
di domenica mattina.
Mi offri per casa una torre.
E io se mi chiudessi lì dentro
troverei come unico credo, il massacrarti.

Quindi, sciò, e stai in guardia.

sabato 6 dicembre 2008

Il maglione

Sono qui davanti al bar, l'indirizzo è quello giusto. Mi guardo attorno, per vedere se ci sei. La gente mi passa accanto e non mi nota, sono una dei tanti. Ma loro si muovono e io sto ferma, io aspetto. E l'orologio finisce con lo scandire il ritmo dei miei pensieri. Ma anche l'orologio, alla fine, non mi sta dietro. Va più lento di quel che sento, di quel che voglio. Se tu fossi qui, a pochi passi da me, a guardarmi mentre ti aspetto, sono sicura capiresti.
Le mie mani, nascoste nelle tasche del cappotto hanno voglia di stringere il tuo braccio. Le mie dita ripercorrono il tuo profilo, ricordano perfettamente il percorso e sapranno ritrovare la strada. Addosso ho il tuo profumo, l'odore del maglione che hai dimenticato da me, l'ultima volta. L' ho messo via accuratamente, è intatto. Per giorni l'ho guardato da lontano, temevo di avvicinarmi per non sentire quel profumo e ritrovarmi scossa dal vento. Indossarlo è stato come entrarti dentro, mescolarmi a te. Due odori, diversi, che ne creano uno solo. E' nata una nuova fragranza, insolita, inattesa. Ventosa e terrena. Un richiamo, racchiuso dentro questa lana. Per questo lo indosso, sotto il cappotto, in mezzo alla strada. Posso perdere te ma non la fragranza di quello che abbiamo creato. E sono venuta a dirtelo, di persona. Non riavrai il tuo maglione, perché nell'intreccio di questa lana verde ci sono oramai finita dentro anche io. Mescolata al tuo odore.


(dedicato ad una amica)

venerdì 5 dicembre 2008

Le cose che odio di me

Parlo troppo.
Starei ore a parlare, raccontare ed ascoltare le storie altrui. Con il rischio di risultare logorroica.
Sento troppo.
Sento prima che gli altri me lo dicano, quel che sta succedendo. A volte sento i distacchi, prima che avvengano. Quindi mi rovino anche l'effetto sorpresa.
Mi fido poco.
Solo pochi sanno davvero chi sono io. E il più delle volte si stupiscono.
Mi par di disturbare.
E così, quando voglio parlar di me, finisco con il temere di disturbare chi mi è vicino.
Temo la mia sensibilità.
Ho ancora troppo pudore nel mostrare quanto il mio cervello è sferzato dal vento.

giovedì 4 dicembre 2008

L'attesa che fa bene

Sto imparando ogni giorno.
Per alcune novità, lo ammetto, faccio fatica.
Come la pazienza.
Sto imparando a convivere
con l'arte del pazientare.
Ho capito che non è sempre giusto correre
a prendere quel che vuoi.
Rischi di non godertelo veramente.
Rischi di trasformare l'entusiasmo
in un assalto alla diligenza.
Oggi sto imparando
ad attendere che quel che desidero
arrivi da solo.
Imparo a lasciar che la diligenza
faccia la sua corsa, senza organizzare l'assalto.
E aspettando...il desiderio cresce.

mercoledì 3 dicembre 2008

la lettera - un racconto

Man mano che il livido si allarga sul collo, trasformandosi da un lungo segno rosso ad un ematoma nero, capisco che è ora di andarmene. Ci ho messo una notte, avevo bisogno di pensare dopo un pomeriggio passato a piangere. Forse tu non potrai mai capire, ma ho passato tutta la notte in salotto a pensare di riuscire ad aprir la porta ed andar via. Scendere le scale, raggiungere strada, salire su un qualsiasi bus e taxi. E respirare. Guardavo la porta, la chiave nella serratura e mi immaginavo tutte le azioni. Girare la chiave, aprire, camminare giù per le scale, aprire il portone e respirare. Per questo te lo scrivo, affinché tu sappia e , ma non pretendo tanto, capisca. Sono rimasta tutta la notte a piangere sul divano del salotto. Sognando di andarmene e disperandomi per ogni pensiero che invece mi diceva di restare, perché l'affetto che ancora provo per te mi diceva che saresti cambiato. Ma l'amore a volte è un pessimo consigliere. Quando arriva il presto? Alla fine è solo un concetto adattabile ai nostri personali egoismi. Non è garanzia di cambiamento, non porti addosso alcun certificato di garanzia che mi assicuri che cambierai in uno o due giorni. E io, che per amore potrei resistere una vita, ti dico che quella porta la apro, e vado fuori a respirare. Perché l'amore non è più così importante, perché con gli anni è diventato affetto e abitudine alla tua presenza nel mio letto, ai tuoi gesti poco gentili, alle tue battute sul mio corpo che invecchia. Un corpo che dici di disprezzare ma di cui sei geloso.
Dove l'ho messo l'amore? L'hai ucciso tu, con le tue mani. Giorno dopo giorno, con le tue inutili gelosie, con i tuoi schiaffi talmente ben assestati da lasciarmi rintronata per ore. Schiaffeggi bene, questo potrebbe essere anche un complimento, se non fosse che quei colpi sul mio viso sono sempre stati gratuiti, immotivati. E quando l'altra notte, mi hai stretto forte il collo, io ho smesso di respirare. La paura mi ha bloccato i polmoni, li ha resi immobili ed afoni. Da allora non parlo, non respiro, non vivo. E' questione di sopravvivenza, a questo punto. Un altro minuto, vicino a te, e anche il cuore potrebbe fermarsi. Ecco, cosa significa presto per me. Aprire subito, adesso, quella porta ed uscire a respirare, senza guardarmi indietro. Senza pensare che all'inizio tra noi era amore e passione. Senza sentire le risate dei ricordi. Oggi, in questa casa, c'è il silenzio. E' come se avessi vissuto questi mesi dentro un bicchiere capovolto, in cui non c'è più ossigeno. E l'amore in queste condizioni, muore. Muore la pazienza e non resta alcuna traccia di comprensione. Resta solo un livido nero sul collo.

martedì 2 dicembre 2008

Spiona

Non ho mai fatto la spia, non amo farla. Culturalmente la mia famiglia gli spioni li insegue da almeno tre generazioni per prenderli a calci in culo.
Ma giuro che se un giorno mi troverò al cospetto del Signore, Dio vostro, e mentre lui sarà impegnato a dirmi di andar a bussar altrove in quanto apostata, voglio puntargli il dito davanti all'occhio - per distrarlo - e dirgli due cosette.
Voglio dirgli che gli alti prelati, i vescovi, i Papi a cui fa spazio in Paradiso da secoli, quando erano in terra, loro, del suo Verbo hanno fatto spesso carta igienica con posizioni tutt'altro che dettate dall'amore e dalla compassione.
Voglio far proprio la spiona, per una volta. Poi me ne andrò tra gli omosessuali, le prostitute, le donne morte di aids con i loro figli per l'assenza di un preservativo, tra gli indios con le orecchie mozzate perché non adoravano la croce.
A farci quattro risate.

Tornite

Mi guardo allo specchio, e come ogni donna che si rispetti, spesso faccio l'elenco dei miei difetti. Ci casco pur sapendo che la perfezione è il male. Ma mi basta pensare alla conoscente tacchettata, modello manico di scopa, che mi capita spesso di incontrare, per star meglio. Gli amici dicono che sono tanta, quando vogliono farmi un complimento. E io sorrido, perché so che è assolutamente vero. Un corpo, uno stile di vita, quello dell'abbondanza.
Di me dico che sono tornita. E mi va bene dirlo, perché sono la prima a scherzare sulle mie rotondità. Con cui, alla fin fine, convivo ora benissimo. Quando esco con la mia compagnia di amici e amiche, raggiungo in fretta il top degli abbracci.
Lo so, sono confortevole e questo mi rende orgogliosa.
Fino a qualche anno fa anche io ambivo al ruolo di donna stecco. Le guardiamo ammirate apparire sulle riviste di moda, bellissime e senza rughe e ti vien l'invidia della perfezione, della totale assenza di cellulite. Poi rivedi i loro cloni per le strade, che avanzano sui tacchetti con facce tristi e piene di rughe, per i troppi chili persi in fretta.
Tavole senza culo e seni, prive di rotondità, irrigidite nei loro ruoli di donne perfette. Perfette per chi, questo è il punto. Per gli stilisti e le riviste o per loro? Non credo affatto siano loro a scegliere, alla fine. E a me vien la tristezza, che mi tocca fermare con un quadretto di fondente extra. O con un abbraccio forte, che è ancora meglio.

Sirene spietate

Avessi qualcosa da dirti, te lo direi, credimi. E' che non ho proprio niente da dire. Non è questione che non ho voglia, che son stanca. Non ho manco mal di testa. Se penso a te, e qualche volta mi capita perché ho il terribile difetto di non dimenticare, sento che non ho assolutamente niente da dire. E allora è bene tacere, girar la testa altrove. Pensare a farsi bene e non preoccuparsi più di niente. Non mi fa manco più sorridere il ricordo delle risate di un tempo, il continuo fruscio delle lenzuola, le tue continue parole dette anche quando era meglio che stessimo zitti.
Abbiamo parlato così tanto che oggi, almeno per me, qualsiasi monosillabo uscito dalla mia bocca appare inutile. Perché già detto. E sai quanto odio ripetermi.
E siccome, tutto ricordo, il già detto lo individuo all'istante e lo evito di conseguenza.
Ma tu continui a parlare, invece, alzi pure la voce. Ti sei arrabbiato , al solito. Sei arrivato, mi ha visto ed hai cominciato ad insultarmi. Ok, era la tua macchina. Ok, ti ho riconosciuto. Ti ho visto scendere e cominciar a far il tuo lavoro. E io che pensavo agli affari miei, ho accelerato. Senza pensarci, avevo la testa altrove. Sì, ho cozzato. Volontariamente? No, il termine esatto è istintivamente.
Tu urli, io non ho niente da dire e fatico pure a sentirle quelle parole, così afone. L'unica cosa che ho sentito netta è stato il suono della sirena della tua auto di servizio che superava la mia Punto e poi si piazzava sotto al cavalcavia. Una sirena fastidiosa e così ho accelerato e l'ho fatta smettere. Ho fatto male? No, non credo. Era una sirena spietata.

domenica 30 novembre 2008

Per favore...no!

Mi tocca ridirlo e lo faccio qui, stavolta. Vai a bere un caffè e ti senti dire che sei una "bella...". Va bene, sorridi come se niente fosse. Poi te ne torni alle tue cose e ci pensi.
Ma io mica ce l'ho quella cosa proprio lì, che a pensarci mi viene pure paura di aver preso qualche strana malattia.
Ci resti e ti dici: "Sarà strana". Ma strana non lo è, semmai è assolutamente capricciosa. E tu pensi, visto che è tua, che è pure carina. Le vuoi bene, insomma. E darle del tubero proprio non ti va.

Insomma uomini, fatemi una cortesia grande: la mia non chiamatela "Patata".


E magari rileggetevi questo:
“Vagina.” Ecco, l’ho detto. “Vagina.” L’ho ripetuto. Sono tre anni che pronuncio questa parola. L’ho detta in teatri, università, salotti, caffè, cene mondane, programmi radiofonici in tutto il paese. La direi in televisione se qualcuno me lo permettesse. La pronuncio centoventotto volte ogni sera quando rappresento il mio spettacolo, I monologhi della vagina, che s basa su interviste a un gruppo eterogeneo di più di duecento donne. L’argomento è la vagina. La pronuncio nel sonno. La dico perché non è previsto che la dica. La dico perché è una parola invisibile - una parola che suscita ansia, imbarazzo, disprezzo e disgusto.
La dico perché credo che ciò che non si dice non venga visto, riconosciuto e ricordato. Ciò che non diciamo diventa un segreto, e i segreti spesso creano vergogna, paura e miti. La dico perché un giorno o l’altro vorrei sentirmi a mio agio pronunciandola, e non vergognarmi o sentirmi in colpa.

— Eve Esler - I monologhi della vagina

Punti cardinali

Il mio Nord è casa mia, lo è sempre stato. E' il mio rifugio, il posto dove adoro stare, anche da sola, perché so che qui sto bene. Ho tutto quello che mi serve, per il mio benessere personale ( a parte il cane, di cui ho già detto...). Potrebbe esser collocato in una qualsiasi regione geografica, in realtà. Perché ci sono un sacco di posti dove potrei vivere.
Il mio Sud sono gli amici, quelli più sinceri, che sanno da uno sguardo intuire quel che io spesso non dico. Anche se non sembra, sono una persona così riservata che spesso per capire le mie intenzioni vado sottoposta ad un terzo grado...E loro lo fanno, e io lascio fare, perché capisco il loro bisogno di starmi vicini davvero e ne ho bisogno pure io.
E' bello averne di vecchi e fidati e di nuovi, inaspettati e carichi di voglia di conoscere e fare cose assieme. Il fare, assieme ad altri, è sempre stata una delle qualità che richiedo in una amicizia. L'amore dove lo metto? A Nord di solito, ma talvolta finisce a Sud...
Da Est ad Ovest invece ci sono gli eventi della vita, quelli fortuiti o inattesi come quelli programmati. E pure i viaggi, che sono un'altra delle mie passioni. Tra una decina di giorni sarò a Praga, nel frattempo organizzo un viaggio a febbraio in Colombia. Viaggiare per me è necessario. Ho bisogno di vedere, toccare, annusare, assaporare e i posti lontani e diversi da quello in cui vivo hanno contribuito, sempre, ad eliminare quintali di stress e liberare la mente.
Perché scrivo di punti cardinali? Perché credo che ci sia una geografia dei sentimenti che fa in modo che la nostra bussola personale non impazzisca, il più delle volte. Che ci fa evitare le acque pericolose, quelle in cui non sai navigare. O che ci permette di avventurarci in quelle acque sconosciute, se lo vogliamo. Sapendo dove stanno il Nord e il Sud, gli unici porti davvero sicuri.

sabato 29 novembre 2008

Libera l'amante

amànte [a'mante]
p.pres., agg., s.m. e f.
1 agg
che ama
2 sm
chi è legato da amore, spesso illecito, a un'altra persona

Leggo sul dizionario la parola amante, una parola che io adoro. Il mio uomo è il mio amante, colui che mi ama. Non potrei definirlo altrimenti. Fidanzato o marito non hanno lo stesso potere inebriante della parola amante.
Ma leggo e ci resto male, perchè oltre all'uso come aggettivo (che ama), c'è quel sostantivo, che indica _ leggo _ un amore, spesso illecito. E ci resto male perché per me nulla è meno illecito dell'amore. Nessuno, manco un dizionario, avrebbe il diritto di definire illecito l'amore tra due persone e non dovremmo soffermarci allo stato civile per giudicare. Ci penso e mi sento evidentemente inadeguata. Come si fa a condannare ad un concetto negativo una parola tanto bella?

Mica lo sapevo...



grazie mille a
http://webgarden.bloglist.it/wow/wow-4/

giovedì 27 novembre 2008

Collezionista di voglie

Oggi m'è scappato un pensiero.
Ero a lavorare
Era presto, faceva freddo.
Non avevo voglia di far
quel che dovevo fare.
Lavorare è questo.
Ti tocca fare anche se non ne hai voglia.
E un pensiero mi è scappato, regalandomi una nuova voglia.
Sono una collezionista di voglie.
Alcune restano tali, su altre lavoro
per realizzarle.
Ma è bello soprattutto, averle, le voglie.
Perché sai che il cervello frulla, che la fantasia è in azione
e anche se devi far per forza, puoi sempre pensar di far altro.
E tutto diventa più lieve.

mercoledì 26 novembre 2008

Ho svolto il tema

In risposta a questo
http://www.laccalappiacani.it/2008/temi-svolti/
Ecco il mio tema su “sveglierò tutti gli amanti, parlerò per ore ed ore”:
commentare il brano della celebre canzone di R. Cocciante mettendosi nei panni di un amante svegliato.

L'AMANTE SVEGLIATO

Ahhhhhhhhhhh! Chi è questo che urla a quest'ora di notte? E suona pure al citofono...Chi saresti tu? Cocciante Riccardo? Che vuoi? Svegliare tutti gli amanti e parlare per ore e ore? E proprio al mio citofono vieni a suonare? E come sapevi che stasera ho un uomo in casa, che è di là che dorme della grossa, sto scemo. Sì, abbiamo fatto l'amore! Ma a te che ti frega, scusa? Ahhhh, siamo amanti e tu ci hai svegliato. Ben fatto, ma qua la sveglia sono solo io. E vuoi parlarmi di Margherita, perchè lei vuole l'amore.
Ok, ma scusami, Riccardo, e io che c'entro? Mi hai svegliato in piena notte, urlando come un gatto evirato...Sì, questa lunga notte è nera più del nero, ma io stavo dormendo, lo capisci, accoccolata addosso ad un uomo che mi piace. No, non si chiama Riccardo e no, non mi chiamo Margherita. Sono Marta, e mi hai svegliato, ti dicevo, mentre me ne stavo accoccolata a lui. Che continua a dormire ( ma quanto dorme questo e non sente il casino che fa questo nano?). Sì anche io vorrei che al risveglio non mi possa più scordare, Riccardo.
Ma se continui ad urlare così, finisce che pensa che sono io la matta, non tu, e mi molla. E invece vorrei che domani si alzasse, preparasse il caffè e se ne andasse senza disturbare e poi la sera mi chiamasse.
Senti, Riccardo, mica solo tu pensi all'amore. Pure io c'ho le mie storie e tu vorresti invece che scendessi a correre con te per le strade e che ci mettessimo a ballare. Ma io non ho voglia, sono in sottoveste. E lui è di là, caldo e addormentato. Io , invece, oramai sono sveglia. E quasi, quasi vado di là e lo sveglio, così lo rifacciamo, l'amore. Che tu canti e basta e io invece qua al freddo mi è tornata la voglia, almeno mi riscaldo. Sì, anche io come Margherita, lo faccio una notte intera. Che ti credi, che solo lei sia buona, bella, dolce, vera. Che solo Margherita ama? Ma guardati in giro! No ti prego non intendevo dire che devi andare a suonare ad altri citofoni. Stai qua, oramai mi hai svegliato nano. Costruirle una culla? Ma che sei pedofilo! No, non lo faccio e poi è notte fonda, sono in sottoveste, ho freddo e ho voglia di andare a prendermi un pochino di vero amore da quello di là...che continua a dormire.
Ma che sonno pesante ha? Non sente come urlo a questo citofono?
Margherita, lo so, Riccardo, non può farti male. Ma se invece di star qui ad urlare al mio citofono che è tua, perché non vai sotto casa sua a dirglielo? Le parli, la baci, magari lei è che aspetta solo te ( povera stella) e così la smettiamo...
Riccardo? ... No, non mi chiamo Margherita, sono Marta. Sì hai svegliato una amante. E sei contento? Sì?Ah, lei sta dormendo e tu non puoi riposare? Sai come si dice, canta che ti passa e tu l'hai preso alla lettera, vero?
Non puoi star fermo con le mani nelle mani? Beh, ti arrangi. Io stasera ho già dato... Sì il sole domattina splenderà, anzi se stai giù lo vedi arrivare tra un paio d'ore. Resto con te? No, guarda ho da fare. Tu canta, io adesso me ne torno a letto. Perchè l'amore mica si canta solo, si fa anche. Meglio spesso, sì.
Beh comunque vallo a dire a Margherita...Ecco una bella idea, costruisci un silenzio che nessuno ha mai sentito. Così è la volta che me ne torno in pace da quell'altro che se la dorme.
Margherita è tua? E chi te la porta via. E poi ti sbagli. Se è la Margherita che conosco io ... quella della via in fondo alla strada, beh la mattina si fa la barba e va a lavorare in carpenteria.
Ok, è la tua pazzia...Ma è un uomo, mettitela via!

La vasca

La vasca è uno dei luoghi perfetti per me.
Quando ho comperato casa, pensavo di installarci la doccia, per comodità. Per guadagnare spazio. Per fortuna non ho commesso quel terribile errore. Niente è comodo e accoccolante quanto la vasca. Sei stanco, sei triste?Tuffati nella vasca. Hai voglia di far l'amore in un posto diverso? Fallo nella vasca. Scoprire l'altro con l'acqua di mezzo è appassionante, oltre che divertente. Ti serve un posto dove pensare? Dove, se non in vasca, magari con due candele e un olio profumato. E dove ritrovi il senso del tuo corpo, che magari è tutto il giorno che corri da una parte all'altra della città e manco ti rendi più conto di averlo un corpo?Nella vasca. Dentro l'acqua calda ritrovi il dialogo con le tue gambe, il tuo pube, le braccia, il seno.
Una volta ci ho anche dormito abbracciata, alla mia vasca, ma quella è tutta un'altra storia.
E per fortuna solo pochi la conoscono e possono raccontarla.

T'amo

"Quante volte hai detto ti amo nella tua vita?" Me lo ha chiesto stasera un amico, mentre si tirava tardi con la combriccola al bar dei nostri comuni amici. "Due, per ora; il resto erano un ti voglio bene", ho risposto. E lui, tutto serio, mi guarda e dice. "Brava, te , che lo hai detto. Io non l'ho detto mai. Non sono abituato".
Ecco, io a volte gli uomini, che adoro e spesso sono tra i miei migliori amici, non li capisco. L'amico in questione mi ha spiegato che si può amare senza per questo mai dirlo, ma che basta comportarsi in modo tale che la donna lo capisca.
Ecco mi chiedo, ma dove cavolo è situato il problema che impedisce a taluni uomini, molti ma non tutti, di esternare i loro sentimenti con un bel " ti amo", evitando di costringere la loro bella di turno a scervellarsi per interpretare atteggiamenti, parole non dette o peggio semplici mugugni o rumori gutturali.
Continuo a pensare che l'uomo non diventa di colpo scemo se dice che ama. Anzi, ci guadagna.
O no?

martedì 25 novembre 2008

Procione



Se catturato in età giovane, l'orsetto lavatore può essere addomesticato facilmente. Stabilisce ottimi contatti con gli altri animali con cui viene a contatto, purché lo lascino tranquillo, al contrario non esita a battersi.


Oggi mi sento un procione, che vaga senza trovare nulla che attiri la sua attenzione. Un procione che sta meglio sull'albero a guardar il mondo dall'alto. Sto meglio qui, sul ramo, così il mondo che è sotto di me non può farmi niente, manco addomesticarmi che non c'ho voglia di esserlo. Non ho voglia di esser buona, conciliante, servizievole. Preferirei oggi uno scontro selvaggio, decisamente più sano di una resa...

domenica 23 novembre 2008

Pippi e Francesco

I piedi che oscillavano, come un vecchio e stanco pendolo. Di Davide, Marta aveva come ricordo quell'immagine. I suoi piedi , che oscillavano, lentamente dall'albero in fondo alla campagna.
Erano stati compagni di lavoro in una azienda agricola. Raccoglievano, ogni estate, pomodori nell'azienda di un conoscente. Per Marta era l'occasione per guadagnare qualche soldo in più. Davide, invece, non aveva altra possibilità: da ex tossicodipendente, faticava a trovare lavoro e quell'occupazione nella fattoria di Gigi era stata la sua unica occasione di guadagnarsi da vivere.
Dopo aver passato una giornata a raccogliere pomodori, con la schiena che faceva un male boia, Davide ogni sera tornava dai vecchi amici. Al bar in piazza. Un bianco oppure una birra e poi la compagnia andava nella stradina dietro l'angolo per il solito rito. Quello della dose. Davide aveva provato per mesi a resistere, si era inventato qualsiasi scusa per non seguirli nella stradina. Era sotto terapia al Sert, segnalato dalla Prefettura. Se sgarrava, finiva in galera. E lui non voleva. Ma la voglia, assieme alla stanchezza, lo rendevano debole. Due giorni prima di andarsene l'aveva detto a Marta, ma lei all'epoca, non sapeva neanche cosa fosse l'eroina. E non poteva capire. Marta lo vedeva giù di morale, aveva cercato di invitarlo a ragionare, a non mollare. Ma le sue erano parole inesperte ed inutili. Due giorni dopo, Davide se ne stava, freddo e bianco, a penzolare da un albero in fondo al campo di pomodori. Una corda stretta al collo, i piedi che ondeggiavano come il rintocco di un pendolo stanco e vecchio. Una lettera in tasca, con due parole, due. "Sono stufo". E ai piedi del tronco dell'albero, una dose di eroina ancora chiusa dentro la stagnola. Aveva resistito ma sapeva che la prossima volta non sarebbe andata così. A Marta, allora diciassettenne, fu impedito di arrivare fin sotto l'albero e vedere Davide in quello stato. Era la piccola del gruppo, cercarono di proteggerla da quella visione così drammatica. Marta riuscì solo a vedere i piedi di quel ragazzo, dallo sguardo sempre triste. Per anni non ci pensò più, il tempo finisce con il collocare i ricordi in un qualche cassetto del cervello, non sempre a portata di mano.
Venti anni dopo, quell'immagine era tornata all'improvviso a farle visita. Era nel suo studio, con un paziente nuovo. Un ragazzo di vent'anni. Occhi grandi, sguardo assente. Il cognome gli diceva qualcosa. Poi il ragazzo le raccontò di essere orfano di padre, morto suicida tanti anni fa. E Marta ripensò al suo vecchio compagno di raccolte. Quel ragazzo che aveva lo sguardo sbruffone di chi si crede già grande era il figlio di Davide. Francesco, così si chiamava il ragazzo, le spiegò che suo padre era morto prima che lui venisse al mondo. La madre non sapeva ancora di esser incinta quando quell'uomo si ammazzò, le disse.
Marta deglutì forte, senza dire nulla. Ma pensava. Forse se Davide avesse saputo, forse, non si sarebbe ucciso.
Ma era la sagra dei se, quel pensiero, e Marta tornò subito al suo paziente; erano in terapia, le divagazioni non erano ammesse. Francesco continuava a parlare, le diceva che il suo problema non era grave ma che sua madre lo stressava e quindi l'aveva costretto a rivolgersi ad uno specialista.
Lei lo era? Il problema, continuò il ragazzo, era la sua apatia. Si svegliava stanco, a scuola non rendeva, a volte al mattino si svegliava tardissimo e perdeva le prime due ore. E sua madre, che lavorava tutto il giorno, non sapeva più cosa fare con lui.
Marta ogni volta che sentiva questi discorsi, dentro, si indignava. Giovani che non hanno sogni, aspirazioni, voglie. Svogliati, pronti solo a scatenarsi in discoteca per tentare di avere voglia. Anticipavano tutto, dalla droga al sesso, e non gustavano nulla. Da lei ne passava qualcuno ed ogni volta sentiva dire le stesse cose. Sapeva che il problema era uno solo: questi ragazzi non avevano nessuno con cui parlare davvero, un adulto con cui confrontarsi.
Francesco, pensò, era il paziente perfetto per la sua terapia speciale. Gli diede appuntamento così per la settimana successiva. Quando il ragazzo se ne andò, Marta, non appena la porta della stanza fu chiusa, aprì il cassetto e tirò fuori la pallina rossa. Se la mise al naso, azionò il led luminoso e si voltò a guardar fuori dalla finestra, sorridendo.
Il mercoledì successivo arrivò in fretta. Francesco si era stupito della telefonata di Marta che gli comunicava che l'appuntamento non era al centro ma in un asilo. Ma non osò chiedere il motivo e alle tre era davanti al portone della scuola. In spalla, lo zaino carico di libri. La faccia stanca, dopo una notte con gli amici passata a fumare "nero".
Varcò la porta e sentì il brusio dei bambini che urlavano. Erano tutti seduti a terra e ridevano nella sala del refettorio, vicino all'ingresso. E vide un pagliaccio che gli veniva incontro. Aveva una grande parrucca rossa, gli occhi neri e le guance contornate di bianco. Al centro una bocca rossa, enorme, aperta in un sorriso grandioso.
"Muoviti, devi preparati", disse il pagliaccio.
E Francesco rimase a bocca aperta, riconoscendo la voce di Marta, la sua terapista.
"Ma...che vuole?". Il ragazzo non potè dire altro, il pagliaccio lo trascinò in una stanzetta dove c'èrano vestiti e trucchi.
"Mettiti quel grembiule da scolaro con il fiocco grande e truccati". Il pagliaccio ordinava e Francesco, allibito, buttò per terra lo zaino e incrociò le braccia. "Se lei ama farsi deridere, io non sono così", replicò.
Marta, irriconoscibile vestita da dottoressa Pippi, il suo nome d'arte, lo copiò. A braccia consente lo guardava, battendo il tempo con l'enorme scarpa che portava al piede destro.
"Tu sei in terapia, con me. E il patto è che se ti chiedo di fare una cosa, tu la fai Francesco. Non sono qui per deriderti o farmi deridere. Men che meno da te. Adesso muoviti, che dobbiamo lavorare. Sei sveglio, però, hai capito subito che ero io".
Francesco allibito, si girò a guardare i vestiti appesi ad una sbarra e i trucchi coloratissimi con il cerone bianco e i rossetti di tutti i tipi. Marta, intuendo i suoi pensieri, gli si avvicinò e prese il martello di gomma dal tavolo. Che finì irrimediabilmente a colpire la testa del ragazzo. "Muoviti", gli sussurrò la terapista e se ne uscì mimando un passo da marcia militare.
Francesco non ci capiva niente, si sentiva morire di vergogna, dentro. Un pagliaccio per terapista. "Ma quella è matta, altro che terapista. Dovrebbe farsi curale lei", disse tra sé. Controvoglia, infilò il grembiule nero e sistemò al collo l'enorme fiocco blu. Poi passò davanti alla scatola dei trucchi e pensò di fare un bello scherzetto a quella stronza. Prese la matita nera e disegnò tra labbro superiore e naso un baffo alla Hitler. Prese il gel e si lisciò i capelli. Poi si guardò allo specchio, sembrava un bambinone cattivo. Azzardò pure un sorriso , il risultato fu un ghigno inquietante.
"Così fai paura, tu sei il cattivo, vero?". La voce lo sorprese davanti allo specchio mentre faceva smorfie al suo riflesso.
A parlare era un bambino . Piccolo e con gli occhi a mandorla.
"La dottoressa Pippi ti aspetta", gli disse il bambino. "Muoviti, cattivo". E il piccolo cominciò a tirarlo per il grembiule, spingendolo a seguirlo. Francesco sbuffava, sentiva i piedi pesanti e sudava. Aveva paura.
Seguì il piccolo fino al refettorio. E vide Marta o la dottoressa Pippi come si faceva chiamare, seduta tra i bambini a confezionare animali e fiori fatti con i palloncini gonfiati. Marta neanche lo badava, continuava a far facce strane gonfiando i palloncini, poi li manipolava come burro e tirava fuori , con gesti veloci, una margherita e dopo un cagnolino.
I bambini ridevano ad ogni smorfia. Una piccola con le trecce si era avvicinata così tanto che gli alitava quasi in faccia. E Marta se la rideva, felice.
Francesco rimase in piedi in mezzo ai bambini a guardare, con un lembo di grembiule ancora stretto dal piccolo cinese.
Che lo fissava, con lo sguardo contrito.
"Che hai moccioso?", gli disse Francesco.
"Non mi sei simpatico, tu non ridi mai?", fu la risposta del cinesino che poi lo lasciò solo in piedi ed andò a sedersi davanti a Marta. Lei, la dottoressa, non lo guardava manco di striscio. Il tempo passava e Francesco così conciato si sentiva un cretino. Allora si avvicinò alla dottoressa e le parlò.
"Cosa devo fare? Sto qua a non far niente, mi sento uno scemo".
"Divertiti", fu la risposta di Marta.
La dottoressa gli passò il martello di gomma. E Francesco si accorse che tutti i bambini lo guardavano, muti e seri. Allora cominciò a camminare, su e giù, su e giù, come in una marcia militare. E ad ogni passo si tirava una martellata in testa. Il sorriso mimava il gnigno cattivo provato prima allo specchio. E i bambini ridevano, alcuni si erano alzati e camminavano come lui. Si formò così una sorta di carovana con Francesco come apripista, una cattiva majorette capo con i baffetti alla Hitler. Poi intervenne Marta che tirò per finta un calcio nel sedere di Francesco. Lui intuì l'azione e si proiettò in avanti come se quel calcio l'avesse davvero colpito. E la carovana ogni tre passi vedeva quello dietro tirare un calcio a quello davanti e il primo saltar in aria come in una danza di grilli. Francesco aveva buttato via, dopo mezz'ora di salti e risate di bambini, il suo ghigno cattivo e se la rideva. Non se ne era manco accorto, fu Marta a farglielo notare.
"Ti stai divertendo, vedo. Mi sa che come prima terapia non è andato così male".
Francesco la guardò, con una sguardo interrogativo. "Lo dobbiamo rifare?".
"Certo _ ribattè pronta Marta _ la prossima settimana. Creati un personaggio, datti un nome. E arriva puntuale che avremo un sacco di cose da fare".
"Ma io non so far ridere, non so manco divertirmi _ rispose Francesco, con la faccia arrossata per le corse _ insomma non sono capace".
"Per esser felici non si nasce imparati _ disse Marta, simulando una voce da vecchia _ non devi imparare a far felici gli altri, a farli ridere. Se ridi tu e sei felice, gli altri staranno bene standoti vicini. Ed ora torna coi ragazzini che devo cambiarmi".
Francesco la guardò andarsene con il suo passo saltellante, i piedi dentro le scarpe di dieci misure più grandi, la parrucca rossa riccia che ondeggiava al passo e il cuscino a gonfiare il posteriore dentro la tuta bianca da operaio. "Dottoressa, sei tutta matta", le urlò. Marta si voltò e gli sorrise accennando un passo di rumba.
Francesco le corse incontro, frugando dentro la tasca dei jeans. Tirò fuori una foto. "Dottoressa, questo era mio padre".
Marta vide la faccia di Davide e tornò a sorridere. " Sì, lo conoscevo. Tuo padre, Davide, era mio amico tantissimi anni fa".
Francesco la guardava ed ora sembrava davvero il ragazzino che era in realtà.
"Dottoressa, poi mi racconti di lui?"

venerdì 21 novembre 2008

succulente

Da quando abito sola, nella mia casa, purtroppo, non ci sono animali. Un cane non riuscirei a tenerlo chiuso tutto il giorno in appartamento, visto che sono fuori casa dieci ore e più.
Altri animali ? Il cane per me è il massimo, amico , complice, coccoloso.
Ma vengo da una famiglia dove gli animali sono sempre stati parte integrante della vita. Nell'ordine sei cani, a volte anche due alla volta, un'oca bianca, un gallo da combattimento, un gallo normale ( George, il mio amico di tante corse in bicicletta sul cestino della graziella), una infinità di passerotti caduti dagli alberi, due anatre (Anita e Garibaldi), ora tre piccioni, e poi una collezione di lumache ( la mia), di formiche ( la mia) , di granchi alloggiati nella vasca del secondo bagno ( pure quelli miei) dal numero imprecisato. Nel conto vanno messi anche due conigli, un merlo indiano ed uno sterminio di merli comuni.
Se avessi il potere di reincarnare o fossi esperta di clonazione, farei rivivere Lea, il lupone che mi ha insegnato a camminare e salvato dall'annegamento in un fosso ad un anno e mezzo.
Sarò banale ma adorerei vivere tra i cani.
Aspetto di coronare il mio sogno, quando ( quando?) sarò in grado di comperarmi una casa con giardino e non sarò schiava delle troppe ore in ufficio. E allora per far vivere davvero la casa cosa ho fatto? Ho riempito ogni angolo di piante grasse, le succulente. Sono un esercito, una ventina. Piccole o grandi, mostruose o cactus, banali o ricercate. Con loro parlo, le curo, le coccolo, le bagno d'estate, metto loro il cappotto d'inverno.
Mi feriscono con le loro spine ma mi regalano fiori incredibili, spaventosamente belli. Durano spesso una notte, come le emozioni più belle.

Ho visto...

Questa settimana è stata ricca di immagini. E di facce. Tutte diverse, tutte da preservare dall'oblio di una giornata passata a correre.
C'è la faccia allegra e spassosa del dottor clown che mi ha spiegato che fare volontariato non significa far del bene agli altri per mettersi a posto la coscienza, ma esser felici di far felici gli altri, un pochino tutti i giorni.
C'è la faccia intimidita del ragazzino che ha frequentato il corso di clownerie e mi racconta, felicissimo, di aver acquistato sicurezza in sé stesso e di aver fatto felici i genitori che temevano non volesse combinar niente di buono nella vita.
C'è la faccia triste di un mio amico, che è rientrato da un viaggio in Sudamerica, innamorato pazzo di una ragazza che chissà tra quanti mesi rivedrà.
C'è la faccia scontrosa di una signora che ha insistito per ore nel criticare, e a volte a ragione, il lavoro che faccio.
C'è la faccia serena di mia sorella che abbraccia mio nipote che mi tiene la mano al punto che l'abbraccio sembra unico, anzichè trino.
C'è la faccia gentile del cameriere indiano che oramai mi saluta, al ristorante, come se fossi una di casa.
C'è la faccia di un uomo che non volevo vedere, che mi è capitato di rivedere, e che non voglio vedere più mentre si accorge di quanto, oggi, sono diversa da quel che lui aveva deciso io fossi.
C'è la mia faccia allo specchio che si osserva e se la gode.

lunedì 17 novembre 2008

Percentuali

Un giochetto che facevo una volta era quello delle percentuali.

Il corpo umano è composto per il 60 per cento di acqua
Nel mio direi che la percentuale scende ben sotto il 50; il resto è vino, meglio se rosso, e rum e grappa. Da ieri sera c'è anche un goccio di Pisco.
Il livello di nicotina è alto: stimerei almeno un 30 per cento.
Ma il livello, invece, delle cellule cerebrali affumicate è ancora basso. Facciamo al massimo un 2 per cento.
Un buon 90% dei miei pensieri è fatto di sincerità.
Riesco di fatto a dire bugie solo se c'è di mezzo la mia sopravvivenza fisica.
E per fortuna, non capita spesso.
Il 100 per cento del mio sentire è passionale ed istintivo.
Il 60% del mio essere è sensuale. L'altro 40% è assolutamente auto-ironico.
Questa parte la studio da anni: ho scoperto di essere la clonazione di un procione, specie al mattino quando mi sveglio. E un procione in lingerie alla fine fa ridere. Per fortuna, sempre.
Se mi arrabbio, il tasso di aggressività sale al 90 per cento, e tendo a puntare alla giugulare. Se vengo placata, o in condizioni normali, l'aggressività scende a zero.
La percentuale di amanti annoverabili come fighi dalle altre è del 10 per cento.
La percentuale di felicità personale è mediamente dal 60 al 70 per cento, a seconda delle situazioni e delle condizioni meteorologiche.
La percentuale di ricerca del piacere personale è al 100 per cento, tutti i giorni.

Il risultato, come anni fa, è che mi piaccio. Se esiste una percentuale , è l'infinito.

domenica 16 novembre 2008

L'autobus della linea 7

Quando l’ho notata per la prima volta in mezzo alla calca di gente, sull’autobus della linea 7, è stato solo un istante. E da allora è dentro di me. Continuo a cercarla. Salgo sul bus ogni giorno a Mestre, destinazione Venezia, porte dei Tre archi. Tutti i giorni, domenica compresa. Per me c’è sempre lavoro, non si va mai in ferie.
Di solito per passare il tempo, provo ad immaginarmi chi siano i miei compagni di viaggio. Cerco di indovinare che lavoro fanno, se hanno figli o mogli o mariti che li aspettano. Se il collega che fissano di continuo è il loro amante o un odiato rivale verso la promozione. Lo facevo anche da piccolo, quando mia madre stava tutto il giorno al lavoro, mia sorella doveva studiare e io alla fine mi mettevo alla finestra ad immaginare che vita facessero le persone che mi passavano davanti casa. Ma torniamo a quel giorno. Io me ne stavo seduto ad osservare l’impiegata del Catasto, stranamente ben vestita, con la piega fresca di parrucchiere e l’abitino stirato. Parlava con un collega e si toccava sempre i capelli. L'avevo capito: quell'uomo alla signora del Catasto piaceva proprio. Ma lui sembrava assente.
Poi l’ho vista , seduta sul sedile opposto al mio.
Carnagione chiara, capelli castano scuro. Un viso dolce perso in un corpo non certo magro. Le unghie dei piedi tinte di color ciliegia spuntavano dalle infradito rosa, portate su jeans scampanati larghi. A coprire i seni prosperosi una canottiera verde militare. Non era bella ma qualcosa in lei mi attirava ed eccitava. Al collo portava un ciondolo di acciaio, che ondeggiava seguendo i sobbalzi degli pneumatici del bus sull'asfalto del ponte della Libertà. Mi è apparsa all’improvviso, era impossibile non stare a guardarla mentre il ciondolo rifletteva davanti a me un ballerino raggio di sole.
Silenziosa, lo sguardo fisso davanti a sé, gli occhi nascosti dietro un paio di occhiali scuri. Un nasino simpatico. Ma furono le labbra a colpirmi. Le guardavo e mi veniva voglia di sfiorarle, per sentire se erano davvero umide. E dolci.
All’improvviso la sua bocca si è aperta in un sorriso e io ho temuto di esser stato scoperto. Ho girato la faccia di scatto e mi sono subito messo a fissare diritto davanti a me. Come un ragazzino spaventato. Sono rimasto immobile a fissare la nuca del ragazzo moldavo del sedile davanti. Non l’ho più guardata finché non siamo arrivati in via Poerio e sono dovuto scendere.
Mi sono lanciato fuori, trasportato dalla ressa , e dopo aver messo un piede sul marciapiede, ho respirato forte. Ero turbato.
A lei non ho più pensato, finché il giorno dopo sul bus delle 17.30, stesso tragitto e stesse facce serie, mi sono sorpreso a guardare con la coda dell’occhio verso il sedile dove c’era lei , il giorno prima.
No, lei non c’era. Poco male, mi sono detto. Ma mentivo: dentro di me si era oramai insinuato un lieve fastidio. Un disappunto per una assenza non desiderata? Non credo nei colpi di fulmine, del resto non sono un tipo che ci casca. O meglio non mi è mai capitato che qualcuna mi guardasse e mi amasse. Di solito se mi guardano è per mandarmi a quel paese insultando mia madre. Che non ha colpe, anche perché è morta. La gente di solito mi evita e le donne che riesco a frequentare sono le ragazze del campo. Troppo indaffarate a pensare alle loro vite bastarde. E poi anche se vivo con loro da tempo, con me, gratis, non vengono.
Andata e ritorno. Mestre-Venezia, Venezia-Mestre. Io che la cercavo in mezzo alla calca del bus e lei che non si vedeva mai. E il fastidio diventa disappunto, la vana ricerca del suo volto mi innervosisce.
Poi, finalmente, è successo.
Ero sul ponte a lavorare. Me ne stavo a testa china , rannicchiato a terra ad aspettare i miei clienti, come tutti i giorni da tre anni a questa parte. La testa bassa, come una posa d'ordinanza. Non devi mai guardare, il cartello parla per te. E' il mio modo di superare la vergogna di dover far finta di avere tre figli che mi aspettano a casa. Quale casa, che un tetto sopra la testo non ce l'ho più ...E quali figli, che non ho manco una donna che mi guardi.
Davanti a me quel giorno, all’improvviso, è apparsa un’unghia color ciliegia. Un piede inserito dentro delle infradito rosa. Sopra un lembo di jeans dal fondo largo. Erano lì, fermi davanti alla mia faccia. Non ho avuto il coraggio di alzare subito la testa, ma dentro di me avevo caldo. Avevo capito perfettamente che era lei. E la volevo.
Poi il rumore, un lieve tonfo. La moneta da due euro che cade dentro il cappello. Allora ho alzato la testa. Lei stava guardando me, attraverso i suoi grandi occhiali neri. Sorrideva e io le sorridevo.
Poi la mia mente mi ha lasciato, non era più con me sul ponte dei tre Archi. All'improvviso ero lontanissimo da Venezia.
Sono a casa. Sto correndo , le mie mani sfiorano le spine di grano del campo e sento, nitida, la voce di mia madre che urla dalla finestra che è pronto da mangiare. Ma io non voglio andare, in fondo al campo c’è Anja, la dolce, che si faceva toccare di nascosto per capire cosa provasse suo padre nel farlo alla signora della drogheria.
Anja, che mi aspettava con la gonnellina stretta tra le gambe e le calzette arrotolate e mi chiedeva di non fare troppo in fretta, ma poi mi sorrideva con quelle labbra rosa che solo una volta ho avuto il coraggio di sfiorare. Sapevano di mare.
Stop.
Una voce mi ha risvegliato all’improvviso dal mio sogno ad occhi aperti. Era un uomo tarchiato, sui 50 anni che mi toccava con un bastone, pieno di astio. Mi urlava di spostarmi perché la signorina doveva passare. Ero un pulcioso, ero di intralcio, mi urlava. Io non mi sono mosso: fissavo il bastone, pronto a sferrare un colpo se osava ancora toccarmi. Ma il bastone non era più puntato verso di me. Lo aveva la ragazza: lo teneva in mano, andandosene, per scandire il passo davanti a sé. Intanto il tarchiato continuava ad imprecare. Mi diceva che dovevo vergognarmi.
Bella scoperta, tutti i giorni la vergogna mi faceva compagnia ma quello stronzo come poteva saperlo?
Non potevo più restare, così ho raccolto il cappello e i soldi e sono corso verso piazzale Roma. Sembravo uno che aveva appena rubato. Qualcuno mi indicava e si guardava attorno per vedere se arrivavano i vigili. Dovevo arrivare in fretta a piazzale Roma. Sparire è la prima regola della sopravvivenza. Il 7 , per fortuna, era al capolinea . Ancora pochi passi, un saltino ed ero finalmente al sicuro.
Dentro il pullman eravamo in quattro. Un operaio dei cantieri De Poli, un pensionato con il nipotino ed io. Ma c’era anche una quinta persona, sul fondo. Non l’avevo vista salendo. Era lei, bellissima, sorridente. Cieca.
Mi sono andato a sedere vicino a lei, lasciando uno spazio tra noi. Ero intimidito. Lei aveva lo sguardo fisso davanti a sé e spostava ogni tanto la testa, a sinistra e destra. Come se ballasse una musica immaginaria. Non sentiva, ho pensato, la mia presenza a pochi passi da lei. Il bus è partito praticamente vuoto, si correva veloci lungo il ponte della Libertà. In fretta siamo arrivati in via Poerio ma io non sono sceso, non potevo. La mia faccia era girata a fissarla, per cogliere esattamente ogni tratto del suo viso.
Pensavo che sarei stato volentieri con lei nel campo in cui da ragazzino imparavo il piacere con la piccola Anja. Mi chiedevo come sarebbe stato sentirla godere. Sentire la sua mano fermarmi chiedendo di rallentare. Il mio respiro che segue il ritmo del suo.
-Scusi. Potrebbe suonare, devo scendere alla prossima.
Lei stava parlando proprio con me. Guardava verso di me. La sorpresa mi ha paralizzato, intimorito. E non ho fatto nulla. E' stato l'operaio a correre a premere il bottone della prenotazione della discesa.
Lei si è sporta in avanti , tendendo la schiena, poi si è fermata. Allora, con il dito le ho toccato il labbro inferiore. L’ho solo sfiorato, lo giuro. Non ho fatto altro, poi sono corso verso la porta, sperando che lei non urlasse, che l' autista aprisse in fretta la porta. Per scendere e sparire, prima che fossero guai.
Lei, silenziosa, si mise dietro di me. Mentre attendevo che la porta si aprisse, sentivo il suo sospiro sulla mia nuca. Avevo paura, ma mi sono ritrovato a respirare al suo ritmo.
Poi si sono aperte le porte, siamo scesi ed appena ho messo un piede a terra, come se fossi solo allora davvero in salvo, di colpo mi sono voltato e le ho parlato.
Come mi sia venuto in mente di farlo, non riesco ancora a concepirlo.
-Posso darle una mano, signora?
Lei mi ha sorriso, ringraziandomi ed ha appoggiato la mano sul mio braccio. Un appoggio saldo, per scendere. Ha mosso solo pochi passi sull'asfalto. E la mia bocca è tornata ad aprirsi.
- Scusi, ha perso qualcosa.
Le ho messo tra le mani la moneta da due euro che aveva lanciato nel mio cappello. Lei dubbiosa, si è messa a girare la moneta tra le dita. Mi ha ringraziato e sorriso. E se ne è andata via, portandosi dietro il suo odore di campo di grano, di gonne alzate e calzettoni alle caviglie, di sudore e strofinamenti. E io, l’accattone del ponte dei tre archi, sono rimasto a guardarla allontanarsi da me, cercando il suo odore sul mio dito.

sabato 15 novembre 2008

Della cioccolata e altri vizi

Ci sono giorni in cui solo un quadratino di cioccolata ti salva davvero. Due centimetri di lato, nero fondente , meglio se all'arancia o prodotto a Modica, e la tristezza va a farsi benedire.
Sono coccole pericolose, dirà qualcuno, che finiscono con il pesare sul girovita.
Ma sono una necessità. Cosa fai quando arrivi a casa stanca dal lavoro? Un bel bagno caldo, una cena curata. Sono gesti quotidiani.
A volte non bastano. A volte neanche una bella musica ed un libro o un film ti rasserenano. A volte si ha bisogno di dolcezza, un surplus, una attenzione speciale. Ed ecco scattare l'auto-coccola giusta e doverosa. Io la chiamo così. Non mi aspetto mai che siano gli altri a fornirmi la coccola, me la concedo da sola. A volte la chiedo, è vero. Ma di solito sono io stessa l'artefice della mia coccola. E' un piccolo vizio di cui mi vanto, il sapermi amare.
Lo scriverei pure sulla Costituzione: oltre alla libertà di espressione, di critica, di voto, di avere una vita sana e con un tetto sopra la testa ci scriverei pure: caro Italiano hai il diritto/obbligo di volerti bene...
A volte lo so esagero, e questa può essere considerata tale, ma sono partita dalla cioccolata per arrivare al volersi bene. Se non ti vuoi bene tu, come puoi aspettare che lo facciano gli altri. Me lo diceva mia nonna, ad ogni occasione, ed aveva ragione. Pure lei, donna religiosissima e devota alla famiglia, pure lei aveva le sue auto-coccole: sniffava tabacco da fiuto. Le piaceva un casino. Cosa era se non un vizio? Lei la chiamava coccola ed ho finito per usare anche io quel termine. Ma ho deviato sulla cioccolata: una tavoletta mi dura settimane. Ma ci deve essere in casa, al pari dell'aspirina. E se qualcuno mi dice che in realtà sono una viziosa, ben venga. Delle persone preferirei conoscere i vizi più che le virtù, spesso così palesi, perché i vizi sono quelli che ti consentono di guardare oltre il cervello, di arrivare alla pancia delle persone e scoprirne la vera indole. E non venite a dirmi che esistono persone senza vizi. Moltissimi li tengono segreti e così i loro vizi risultano mal vissuti, per timore di sconvolgere. Io ho imparato a conviverci con i miei vizi. Me li tengo stretti, li lascio liberi ogni tanto. Così li controllo a distanza. Sono io a decidere quando liberarli, non loro. E ci vivo bene, perché mi danno quello di cui ho bisogno. Da sola o in coppia non ci rinuncerei. La cioccolata, mangiata in due, non perde affatto di potere e sapore. Anzi, aumenta i suoi effetti. Quindi quella che per me è una auto-coccola, può risultare una coccola offerta. Un vizio personale diventa condiviso. Coccola uguale vizio. Alla fine più ci penso e il termine migliore da usare sarebbe: piacere. Un mio amico medico mi spiegava che tutte le dipendenze nascono da lì, dal bisogno di avere piacere. C'è chi non ha bisogno di surplus e c'è chi lo cerca ovunque. C'è chi li chiama vizi, c'è chi come mia nonna, coccole. Sempre bisogno di piacere è alla fine. Il mio.

giovedì 13 novembre 2008

Mi manca

Sono qui a pesare tutta questa mancanza.
Non me ne ero mica accorta, finchè non l'ho sentita.
Palpabile, pesabile, evidente.

martedì 11 novembre 2008

La banda

La banda era un disastro. L’attacco di ogni marcetta sembrava una scoreggia in progressione, altro che allegro andante sul mosso.
Lo zio Gigi , seguito a ruota da zio Giuseppe, si lanciava immancabilmente in una improvvisazione di mazurca che deviava sul jazz che mi costringeva, pur non volendo, ad accelerare il passo. E Gianni alla grancassa, dietro di noi, giù a ridere. E a battere, aumentando il ritmo. Gli altri finivano con l’andare a più non posso. Con il risultato che ogni esibizione, si riduceva di due, tre minuti buoni e si finiva sfiniti a ridere davanti al maestro Perdiboni.
Lui oramai non ci faceva più caso, diceva. Ma veniva tradito dal sopracciglio. Che ad ogni stecca di zio Gigi si sollevava come se un burattiniere folle lo stesse azionando dall’alto, per farlo sembrar ridicolo ai nostri occhi anche se a parole, il Perdiboni, lodava ogni nostra esibizione. In privato, invece, sapevamo bene che diceva.
Musica da cani, la chiamava. Suonata da cani.
Lui, maestro del Conservatorio in pensione, andava avanti imperterrito con la sua scuola di solfeggio e le prove della banda per portarci , diceva, sulla retta via dell’arte musicale. Perdiboni credeva davvero nel suo lavoro. Anche se mi mandava a salutare i parenti lontani in Cina ( mai conosciuto uno di quelli) ogni volta che svuotavo il sax e la saliva dal condotto usciva inesorabile, finendo sopra le sue scarpe di pelle tanto curate. A volte usava un altro termine, “Va in mona”, ma quello è un dettaglio.
Scarpe da ballerino indossava il Perdiboni: era un appassionato di valzer e tanghi. E ogni tanto, quando andavamo in trasferta con la banda, finito il concerto, mi invitava a ballare alla sagra del paese. Ero una frana anche in quello ma forse gli stavo simpatica, tanto mi stringeva a sé costringendomi a mettere i piedi al posto giusto. E il sopracciglio da folle spariva. Stringeva e sorrideva. Con Perdiboni ho imparato a ballare e ad amare la musica, nonostante tutto.
E anche a capire dove si posano le mani degli uomini.
Se ho iniziato a fumare invece lo devo agli zii Gigi e Giuseppe. La prima sigaretta? Una Nazionale senza filtro.
La prima prima? Eravamo impegnati in un concerto al Carnevale di Venezia, sulla scalinata della chiesa di Vivaldi, il prete rosso. E tra un pezzo e l’altro, ci si divertiva ad allietare il pubblico di turisti con fette di salame e bicchieri di vino rosso. Ad ogni bicchiere, zio Gigi deviava sempre più sul jazz e zio Giuseppe gli andava dietro. All’ultimo pezzo, la marcia di Radetzsky, erano completamente ubriachi. Posati i sax tenori e preso in mano il bicchiere di grappa offerto da Pippo della sezione clarinetti, mi misero in bocca una Nazionale senza filtro e la accesero, ridendo come pazzi.
Io non ero come loro, suonavo il sax contralto. E dopo la prima tirata di Nazionale, che mi divampò in gola come un fuoco, mi misero in mano il bicchiere di grappa, quella del nonno, per spegnere _ dicevano _ il fuoco del tabacco in gola. Il risultato fu terribile, io che arrancavo sulla scalinata tenendomi la gola in fiamme e loro a ridere come due pazzi. E i turisti, dietro, come galline starnazzanti. A ridere di me. Pensavano fosse parte dello spettacolo di Carnevale.
La banda era così, una compagnia di vecchi e giovani con il ritmo accelerato e l’orecchio tutt’altro che assoluto, ma animati da una sana passione per il cazzeggio. Per noi, ragazzini all’epoca, era anche un modo per stare assieme e vedere posti lontani. Siamo arrivati fino a Cento, provincia di Ferrara, ma a noi bastava: sembrava lontanissimo milioni di chilometri da Mestre. E soprattutto nei viaggi in bus, andata e ritorno, quando le giacche strette e i cappelli a forma di panettone, ovvero la divisa d’ordinanza della banda cittadina ,finivano in alto, ammucchiati nei porta-oggetti, dentro il pullman si cantava e si rideva. Dal “Mazzolin di fiori” a “Parole, parole,parole” di Mina , era tutto un cantare.
Io mi divertivo alla grande, mi sentivo proprio come Mina, con una voce possente da usignolo, e il maestro ogni volta mi invitava a provarci ad iscrivermi al Conservatorio.
“Studia da cantante”, mi diceva e poi ci mettevamo a ballare. Ma la voglia di studiare era poca, ben di più quella di divertirsi. E nella banda, la risata non mancava mai. E a me bastava. Gli scherzi erano all’ordine del giorno. Dal pongo infilato dentro ai sax, resi afoni di colpo. Ai clarinetti con lo scotch all’interno dei componenti per rendere difficilissimo l’assemblaggio. E soprattutto il cambio di musica al volo, con una marcia che diventa improvvisazione jazz. Oppure il grasso per tenere saldi le varie parti di sughero del clarinetto, messo sopra al burro cacao con cui cercavamo di evitare la formazione dei calli sul labbro inferiore, causato dalla vibrazione dell’ancia in bocca. Una puzza indicibile, la bocca che sapeva d’escremento. E voglia di suonare, pari a zero. Quello era il risultato. Le zingarate rovinavano il lavoro di Perdiboni. Chiunque ci avrebbe rimesso le orecchie nel disastro generale delle prove nella palestra della scuola, dove tutti i mercoledì provavamo. Due ore di lavoro ( si fa per dire) e poi via a mangiar panini con il salame. E il vino per i grandi e aranciata per i piccoli. E la grappa del nonno. Clandestina, quindi servita con circospezione. Zio Giuseppe la rubava di nascosto ma mio nonno aveva sempre la scorta assicurata. Come faceva? La nascondeva dentro le bottigliette dello sciroppo, il vecchio. Lo scoprimmo dopo anni, quando il medico di famiglia annusò il contenuto della boccetta e quasi svenne per lo spavento. Mio nonno anche allora ebbe la battuta pronta. “Sarà scaduto”. Ma al primo sorso, il dottore non ebbe dubbi e svelò il trucco. Altro che anti-tosse, quella era grappa fatta in casa, fece notare. “ Ammazza tutto”, replicò il vecchio. E aveva ragione.
Noi ragazzini della banda, a suon di sorsetti di grappa, eravamo certo già svezzati all’etilismo veneto ma non beccammo un raffreddore manco a pagar oro. Io invece cominciai a far l’abbonamento alla tosse. Colpa delle Nazionali senza filtro, rubate agli zii e fumate in bicicletta con Marco e Marina, i miei amici inseparabili. Stavamo assieme tutti i pomeriggi o almeno riuscivamo a vederci tutti i giorni anche se io avevo due pomeriggi impegnati con il basket e loro due andavano al Conservatorio per ottenere il diploma di clarinetto. Ogni mercoledì sera avevamo l’appuntamento con la banda e la domenica pomeriggio la passavamo assieme, inseparabili. Tre come uno, uno come tre. Avevamo anche fatto il patto di sangue, lo chiamavamo così. Ma senza sangue. In realtà ci eravamo baciati a turno in bocca, come vedevamo nei film della mafia. Solo che eravamo furbi e abbiamo lievemente dilungato, anche per non arrivare impreparati al terribile appuntamento con il gioco della bottiglia alla festa a scuola. Bacio alla francese, diceva Marco che era sempre all’ultima moda. Sì, ma la lingua dove la mettevi? Ne discutemmo per giorni fino a decidere di provare tra noi, per capire. Marco rischiò di soffocarsi tenendola indietro sotto i denti il più possibile. Marina sembrava mangiasse un gelato. Io puntai a tenerla sul lato sinistro. Del resto ero mancina. E figlia di comunisti. Quel bacio suggellò l’amicizia. La banda resiste ancora, noi siamo ancora amici. Marco ha preso la sua strada ed è in una isola deserta,decisamente lontana, a spassarsela con i bicipiti. Marina è mamma di due splendidi bambini e insegna ai ragazzi disabili come comunicare con la musica.
Io, beh, io sono alla prese con la mia tosse. E ogni tanto in testa mi risuona la marcia di Radetzky e rido. E la lingua va a sinistra e sfioro il sax. E finisco con il cantare come Mina.
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